Il 22 Ottobre è uscito il nuovo lavoro del musicista e compositore sardo Paolo Angeli, capace di creare magici universi sonori grazie alla sua chitarra sarda preparata, una vera e propria strega ammaliatrice, che ha incantato personaggi del calibro di Pat Metheny. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare di Jar’a e della sua musica.

Che cos’è Jar’a? Sui social hai descritto il percorso che ha portato alla realizzazione di questo lavoro come un “ritorno alla superficie”

“JAR’A” (da Sa Jara, la Giara, come vengono chiamati gli altipiani della Marmilla e Sarcidano) è una suite in 6 movimenti, che percepisco con un respiro unico e che si materializza nel climax di Sùlu (soffio): quasi l’evocazione dello sbuffare dallo sfiatatoio di un delfino, dopo un’estenuante apnea. Realizzare questo album è andato di pari passo con il riappropriarmi di un’idea di spazio, ri-percepire la bellezza degli orizzonti aperti (assaporati dalle cime dell’Isola di Caprera e dalle Giare di Serri e Gesturi), alternare la frequentazione dei graniti dell’arcipelago, alle lunghe escursioni nel cuore della Sardegna più ancestrale e ad alta densità archeologica. L’album è stato registrato a Barcellona, nella mia stanza studio. Sono arrivato in Sardegna in giugno, con circa 4 ore di registrazioni. Era da oltre trent’anni che non passavo un tempo così lungo nella mia terra, senza partenze settimanali per latitudini diverse del pianeta. Le isole pongono dei limiti oggettivi: arriva un momento che la terraferma finisce ed inizia il mare. Se poi vivi nell’isola di un’isola, com’è stato per me a La Maddalena, le distanze inizi a misurarle in relazione al vento. Una delle sensazioni più belle che ho provato in questi mesi è stata osservare la Corsica, immaginare di attraversare le Bocche di Bonifacio, raggiungere l’altra sponda, iniziare una nuova avventura verso le Baleari o verso Marsiglia. Il vento determina la libertà di approccio con il mare. E quando il maestrale e il ponente si congedano, consegnano alle spiagge i banchi di posidonia: polmone del mediterraneo che avvolge il ritratto realizzato da Federico Crisa (foto di Nanni Angeli) e il mio viso scolpito dal sale e dal fango (foto di Emanuela Porceddu) immortalati nella copertina del vinile.

Il mio è un ritorno in superficie dal mondo sommerso, un viaggio verso le raffiche mai domate, un rivendicare la memoria storica di un popolo che spesso ignora la complessità della sua radice. In questi mesi mi sono confrontato con la parte più ancestrale della mia terra, quella, appunto, delle Giare, aree nei pressi delle quali lo Stato vorrebbe installare un deposito di scorie nucleari (giusto per evidenziare il gap culturale che viviamo, sarebbe come pensare di violare una fortezza dei Maya). Ho vissuto per mesi ai piedi del più importante santuario nuragico, Santa Vittoria di Serri, e qui, tra visite nei siti archeologici, spazi aperti contrassegnati da nuraghi in allineamento e boschi abitati da cavalli selvaggi, ha preso forma l’editing del materiale registrato a Barcellona. Il senso di libertà che ho percepito in questi mesi è il racconto di Jar’a, un lavoro in cui cerco di restituire la tridimensionalità degli orizzonti aperti, con un disegno sonoro all’avanguardia per una chitarra ripresa senza sovraincisioni e magistralmente masterizzata da Marti Jane Robertson.

Ascoltando il disco si ha come l’impressione che ci sia una sorta di continuità rispetto al tuo disco “22.22 Free Radiohead”, come se avessi messo a frutto quel lavoro per rendere pienamente contemporanea la tradizione musicale sarda.

Sono d’accordo con te. Il brano Andira e Icaro/Nude, entrambi parte di 22.22, in qualche modo raccontano in fase embrionale quanto succede in “Jar’a” in formato dilatato. Fino a quel momento, l’uso della voce nei miei album, rappresentava una riproposizione ortodossa di melodie della tradizione, rivestite da una struttura contemporanea nell’accompagnamento, ma mantenute nella loro veste tradizionale. In questo caso la mia voce è processata e filtrata con distorsori e spazializzata con i reverse delay. In sintesi è trattata con la stessa libertà di approccio con cui lavoro alle partiture chitarristiche. Inoltre le melodie sono frutto di una seduta di improvvisazione vocale: non si tratta di un canto preesistente, ma di una narrazione “alla sarda”, frutto di una tradizione metabolizzata e restituita in un flusso cangiante. In questo si inserisce il basso gutturale di Omar Bandinu, che ha accettato la difficile sfida di abbandonare i territori più convenzionali del Canto a Tenore, per improvvisare, a sua volta, con una declinazione ora melodica, ora ritmica.

L’architrave monolitico del Tenores di Bitti si confronta con la vocalità gallurese-logudorese: credo sia un momento unico nella storia della musica sperimentale sarda, dove fino a questo momento gli accostamenti avvenivano tra musicisti tradizionali e musicisti di avanguardia. In questo caso siamo noi stessi a mettere in gioco la nostra cultura e a dare un contributo per costruire una nuova identità canora, contemporanea ma profondamente radicata. Faccio un esempio: le mie parti vocali sono filtrate come se venissero amplificate dalle trombe Geloso, sistema utilizzato comunemente nelle piazze per amplificare la musica sarda tra gli anni ’60 e ’80. Contestualizzato in un album dal sapore post-rock, sembra un’espressione vocale lontana dalla tradizione, quando invece è uno dei suoni in cui maggiormente si identifica il cultore della musica tradizionale. Sicuramente tutto questo rappresenta il punto di partenza per future derive nella ridefinizione del rapporto tra memoria e innovazione. Allo stesso tempo avviene con profonda serenità: la musica sarda sta vivendo un momento di consolidamento tra le nuove generazioni e quindi non si rischia di perdere il testimone filologico della storia.

Per i lettori e gli ascoltatori che non ti conoscono ci puoi raccontare come nasce la tua “chitarra sarda preparata”?

Nasce a Bologna tra il 1993 e il 1996, in una terra di nessuno profondamente legata ai movimenti underground, agli spazi occupati, ai visionari del DAMS e ai collettivi creativi.

Ma allo stesso tempo, nei decenni successivi, si sviluppa nelle botteghe artigiane, tra le mani del mio braccio destro Francesco Concas (CROM), fino ad arrivare al vecchio Giancarlo Stanzani e ai tanti compagni di viaggio sparsi per il mondo. Sul primo modello ci hanno messo le mani decine di persone. Ricordo che per inserire il puntale, avevo litigato con due liutai perché, nonostante dicessi “vi pago!” mi avevano sbattuto fuori dalla bottega. Tra le lezioni di Zio Giovanni Scanu (ultraottantenne che mi radicava nella tradizione) e le esperienze con Fred Frith e Jon Rose, con cui mi affacciavo sui sentieri della free music, nasce la chitarra sarda preparata: un ibrido tra chitarra baritono, strumento a percussione, violoncello, kora, ghironda etc. È frutto di un work in progress ed in continua evoluzione, ha un pickup separato per ogni corda, per cui posso spazializzare e filtrate ogni corda separatamente: una vera e propria orchestra trasportabile in una custodia di chitarra.

Come è nata l’idea dell’utilizzo da parte di Pat Metheny di una chitarra come la tua?

Pat Metheny rimase folgorato da una mia esibizione a Sant’Anna Arresi Jazz nel 2001. A fine concerto, iniziò la sua performance con oltre mezz’ora di ritardo: era con David Oakes, il suo tecnico del suono, e con una torcia guardavano il mio residuo post-punk (una chitarra da 250.000 lire). Per me era l’idolo della adolescenza che rimaneva sedotto da uno strumento osservato ancora con sospetto. Da quel momento è diventato il mio fan più accanito, quasi imbarazzandomi in diverse occasioni, ad esempio parlando di me e del mio strumento nelle conferenze stampa di presentazione dei suoi album e indicandomi come uno dei suoi chitarristi di riferimento, oppure presentandosi a sorpresa al Tonic di John Zorn (New York). C’erano 30 sedie e un signore inconfondibile, con quei capelli fuori dal tempo, che ascoltava mentre beveva la sua Coca Cola. Dal 2003 utilizza dal vivo una copia della mia chitarra – realizzata da Concas e Liuteria Stanzani, ulteriormente modificata per adattarla alle sue necessità espressive – vera e propria protagonista nel progetto Orkestrion. Abbiamo un costante scambio di opinioni sulla musica, sulle evoluzioni del mondo e sulla necessità di guardare al futuro sempre con la necessità di sorprendere per prima cosa noi stessi. Credo che Pat sia un esempio molto importante per la sua capacità di ridefinire costantemente il suo ruolo nel mondo della musica.

 

Come si articola il processo creativo con uno strumento così particolare?

Normalmente inizio le mie giornate suonando sulla chitarra convenzionale. Ma negli ultimi anni, da quando ho iniziato a lavorare con maggiore intensità sulla relazione tra suono acustico e suono “processato”, passo decisamente più tempo a contatto con il mio strumento. L’approccio è quello dell’orchestrazione, cerco di evitare il virtuosismo solista e di sviluppare un’indipendenza ritmica e mentale, che mi permetta di seguire contemporaneamente diversi piani di sviluppo: quello melodico, quello timbrico, quello ritmico. È molto complesso e presuppone una frequentazione costante e quotidiana, un atteggiamento da artigiano che ha poco a che fare con l’ispirazione e molto di più con la costanza. Poi esiste la stratificazione, la necessità di completare la tavolozza di colori e l’arricchimento dei nuovi prototipi, il consolidare e perdere i suoni che non ti interessano più. L’obiettivo è indagare sempre cose diverse, cercare un suono che ti sorprende, recuperare dai ricordi oggetti musicali smarriti.

È una bellissima e, allo stesso tempo, impegnativa relazione che quest’anno compie le sue nozze d’argento!

Che peso ha nella tua musica e nel tuo processo creativo il concetto di tradizione e il tuo essere sardo?

Conosci la storia del flamenco contemporaneo? Io dal 2006 vivo in Spagna, a Barcellona, dove ho ascoltato credo una media di quattro performance alla settimana di flamenco ‘puro’. A partire dagli anni ’70 musicisti come Paco de Lucia, Camaron de la Isla, Enrique Morente, hanno letteralmente stravolto la storia di un genere che staticamente riproponeva il trio chitarrista, cantante e ballerino. Album come “La Leyenda del tiempo”, in cui Camaron trascina la buleria su territori progressive (con il suono del moog, le chitarre elettriche, il basso, la batteria) e “Omega”, in cui l’urlo flamenco di Morente è sorretto dal muro di suono Larsen di chitarre acide post-punk, hanno ridefinito i confini di questa musica sublime. Paco a sua volta ha spostato, album dopo album, il confine tra musica contemporanea e tradizione, ampliando il linguaggio e il fraseggio, inserendo il Cajon (percussione peruviana che non possiamo che immaginare abbinata alla musica spagnola ma che, fino agli anni ’70, era sconosciuto nella penisola iberica), orchestrando le falsetas. Tutti e tre, che ora sono quasi degli eroi nazionali e, nel caso di Camaron, la bandiera del popolo gitano, vennero considerati gli assassini del flamenco da parte dei puristi.

Qualche anno fa, parlando con Tula (Tal Ben Ari, cantante israeliana), lei mi disse: bisogna lottare, per fare in modo che la tradizione non rimanga troppo a lungo tra le mani dei tradizionalisti e sfiorisca. Il mio obiettivo è trasportare la cultura musicale della mia terra nei territori dell’avanguardia, con naturalezza, senza fretta. Per me la tradizione è una materia viva, legata al presente, non va ‘museificata’ anche perché, ripeto, non stiamo fortunatamente parlando di una riserva culturale: ogni centro della Barbagia ha diversi gruppi che cantano a tenore, è una cultura viva, come la lingua. Per questo sono sereno nel lavorare con i dettagli e della complessità del passato, senza inibire la creatività del presente, con lo sguardo rivolto al futuro. Un’altra cosa è l’appropriazione culturale: il furto o la copia oleografica di un linguaggio proposto superficialmente, senza una reale conoscenza della complessità e dei dettagli delle musiche popolari. Sono un esponente della musica contemporanea sperimentale, mi sento cittadino del mondo, ma ho avuto la fortuna di immergermi nelle differenti tradizioni locali della mia terra di origine. Ora, con una modalità altrettanto naturale di quella che mi ha fatto approdare alla realizzazione della chitarra sarda preparata, non vedo l’ora di innestare questo patrimonio, con la musica che ho digerito a contatto con i musicisti di avanguardia di ogni latitudine.

 

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Paolo Angeli