Incontriamo Enrico Pieranunzi a Campobasso, in occasione della sua Masterclass di due giorni, coordinata dal pianista e docente Fausto Ferraiuolo, nell’ambito delle attività didattiche del Conservatorio Statale di Musica “Lorenzo Perosi”.

Luogo della Masterclass e del nostro incontro, la bellissima cornice del Tao Studios. Una struttura di 650 mq in periferia di Campobasso, in zona Ferrazzano. Progettata e strutturata per soddisfare tutte le esigenze del mercato musicale (www.taostudios.it).

 

Vorremmo partire da Frame, uno dei suoi ultimi progetti pubblicati per la CAM JAZZ.

“Frame” è un progetto molto particolare, l’idea è quella di realizzare dei pezzi ispirati in qualche modo al mondo espressivo di pittori importanti del ‘900: da Picasso a Pollock, a Matisse, a Klimt ed infine a Hopper. È stata un’idea del produttore; solitamente le proposte arrivano da noi musicisti. In questo caso, invece, è stata proprio un’idea sua, che ho sposato con grande piacere ed entusiasmo, e che ha generato una musica molto particolare.

Nel brano Picasso Vibes insieme al piano compare anche la celesta.

Sì, quello è un pezzo molto particolare, una specie di ninna nanna.

La celesta mi affascina, forse è un po’ naif dirlo però è uno strumento particolare, sembra avere una connotazione quasi infantile; infatti, il pezzo è una berceuse, ci stava bene in questo contesto un po’ “aereo”, diciamo, di questo disco.

Dove lo ha registrato?

La registrazione è avvenuta in Germania a Ludwigsburg, al Bauer Studios, che è lo studio dove normalmente negli ultimi anni si registrano i dischi per l’etichetta CAM JAZZ.

Altri miei dischi sono stati registrati lì: per esempio “Plays Scarlatti” di qualche anno fa e anche “Bach, Handel”. Questo grazie alla presenza di un bravissimo ingegnere del suono, Johannes Wohlleben.

Fra l’altro questo è stato il primo studio di Jarrett: i suoi dischi storici, quelli anni ’70, sono stati registrati qui.

Lo studio adesso ha finito il suo ciclo storico e la CAM JAZZ registra invece a Udine da Stefano Amerio, altro bravissimo tecnico, che incide moltissimo per la ECM, diventando un collaboratore fisso di Manfred Eicher.

Lei è uno dei musicisti, almeno nel mondo del jazz in Italia, che ha saputo meglio interpretare il periodo di pandemia, anche a livello di proposte, organizzando concerti ed altri eventi in streaming. Ecco, ci interessava capire la sua idea rispetto alla fruizione della musica e la sua evoluzione al giorno d’oggi.

Vi rispondo fornendovi un numero, che riguarda la “musica liquida”: prima dell’estate i miei ascolti mensili su Spotify erano arrivati a circa 600.000. Poi sono calato progressivamente fino ad attestarmi a più di 400.000. Mi sono detto: oh Dio non mi sente più nessuno, invece il produttore della CAM JAZZ mi ha spiegato che questo dipendeva dal fatto che essendoci l’estate ed essendo bloccate molte attività, tanta musica di sottofondo non veniva proprio ascoltata!

Allora perché ho voluto citare questo dato numerico? Perché anche per me questo è un mondo relativamente nuovo, a cui sto cercando di adeguarmi.

Intanto il mio criterio base è quello della qualità; cerco di fare delle cose di qualità. Secondo criterio, cerco di fare delle cose, anche differenziate fra di loro, per cui per esempio il piano solo, ma anche il disco, magari con la cantante Simona Severini per l’etichetta Abeat, oppure c’è in arrivo, speriamo presto, un cofanetto con Marc Johnson e Joey Baron, che conterrà i sette dischi che abbiamo inciso per la CAM JAZZ, più una nuova registrazione.

Siamo riusciti a fare una reunion bellissima a Parigi, due anni fa, suonando in un luogo meraviglioso, La Seine Musicale, una sorta di Parco della Musica di Roma. Ci siamo rivisti dopo tanti anni e quel concerto è stato registrato.

Questo è un periodo piuttosto enigmatico, nel senso che non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. Il CD è sicuramente in crisi, i numeri sono noti: fatto 100, il 15% è occupato dal supporto fisico, mentre l’85% dalla musica digitale. mi dicono gli esperti che c’è un rapporto del 15% di CD rispetto all85% di musica liquida cosiddetta digitale. In queste condizioni, quindi, si cerca di andare avanti, mantenendo la qualità e differenziando l’offerta.

Il vero problema secondo me, però, è un altro: il pubblico.

Il pubblico un po’ ha paura, un po’ esistono delle limitazioni pratiche. In più mi sembra che gli ascoltatori di jazz così come quelli di musica classica sono in diminuzione. Questo perché è un tipo di musica che non compare in altri media; non c’è un’interazione virtuosa per esempio con la tv. Non si vede mai un‘orchestra sinfonica, un quartetto d’archi, un concerto per violino, per pianoforte, all’interno di una trasmissione di grande diffusione.

E quindi siamo in una fase veramente “liquida”, vediamo come andrà a finire.

@CMPHOTOITALY

Neanche quest’estate ha visto una ripartenza, con la ripresa di tanti Festival e Rassegne?

Una ripresa sì, però secondo me, almeno al momento, l’idea che tutto ritorni come prima, la ritengo un’opzione piuttosto irrealizzabile, almeno nel breve periodo. Una conseguenza di tutto ciò è stato ad esempio lo smarrimento.

Il motore una volta riavviato non va come prima. Siamo di fronte probabilmente all’opportunità per cambiare in maniera innovativa, certe modalità, certi usi, certi riti.

Però anche in questo intravedo un po’ di stanchezza. Insomma, è un periodo non semplice, speriamo di uscirne presto.

Tornando ad argomenti più strettamente musicali, ci illustra il rapporto, di cui lei ha più volte parlato, tra la musica jazz, improvvisata, e il gioco del calcio?

Io ci credo; a me piace farlo perché il calcio in realtà è un ottimo elemento di paragone, soprattutto per il jazz di gruppo.

È evidente che le grandi squadre, al di là dei talenti individuali, hanno risultati quando funzionano come gruppo. Il jazz è una musica di gruppo; se hai un quintetto, un sestetto e non c’è una interazione profonda tra i componenti, i risultati sono scarsi.

Prendo l’esempio del Quintetto di Miles Davis e parlo di interazione musicale. Poi a livello privato, come anche forse nel calcio, magari ci possono essere delle ruggini, dei contrasti. Li dipende naturalmente anche dall’allenatore e nel jazz l’allenatore non c’è, ma in un certo senso c’è, è il leader. Spesso alcuni grandi leader, proprio come Miles ed altri, Chick Corea stesso, sono stati non solo leader perché erano quelli che avevano l’idea del progetto, ma anche perché riuscivano ad avere un rapporto uno a uno con i componenti, tale da mettere questi musicisti nella condizione di esprimersi al meglio. È un po’ come un allenatore che riesce a far sì che tutti i giocatori riescano a esprimersi al meglio, senza mugugni, senza insoddisfazioni, senza frustrazioni.

Questo è un primo aspetto. Poi c’è un elemento veramente comune ai due mondi, che è l’uso del corpo, cioè la presenza. Una cosa che ho imparato suonando molto con gli americani è la loro presenza sul palco; c’è da imparare molto da loro. Proprio per il tasso di presenza, che vuol dire presenza totale nella musica che si sta suonando e anche nel rapporto con gli altri.

E questa è una cosa che pure nel calcio è importantissima: se stai andando all’attacco e non vedi quel giocatore che si è smarcato sulla destra e vuoi concludere da solo a testa bassa, non hai percepito l’altro, e quindi stai facendo un danno alla squadra. Allo stesso modo nel jazz. E se tu, batterista, senti il sassofonista che sta suonando più piano, in quel momento serve una riduzione del volume e continui a picchiare come un pazzo da solo, stai facendo un danno al gruppo. Ecco, ci sono delle affinità.

Un’altra cosa che mi piace sempre sottolineare è che il jazz, in particolare, essendo una musica dell’istante, di quell’istante, è una musica in cui i musicisti hanno, e questa è una cosa che spesso i musicisti classici non riescono proprio a cogliere, la velocità di pensiero e d’azione, cioè praticamente tu devi pensare e fare quasi nello stesso momento.

E questo è quello che fa il calciatore quando riceve la palla, deve decidere passo a destra a sinistra oppure tiro in porta; tutto avviene in micro, nano secondi. Aspetto affascinante che dà al jazz una componente, direi quasi di “performance sportiva”, che poi può diventare anche controproducente, quando tutto questo significa solo virtuosismo, velocità, esibizione di forza.

Come si pone il musicista Enrico Pieranunzi nell’affrontare la musica cosiddetta classica, combinata al mondo del jazz: diversi suoi progetti, come quello dedicato a Scarlatti, a Bach, a Handel, presentano delle parti di improvvisazione e non una esecuzione della pagina scritta dai compositori.

Il rapporto tra questi due mondi musicali ha avuto diverse fasi. In sintesi, ho sempre avuto una specie di doppia vita: formazione classica, ma contemporaneamente, grazie a mio padre, anche formazione jazz (che suonavo con lui); per cui una cosa abbastanza anomala.

Per molti anni ho tenuto separate le due cose; ci ho pensato veramente tanto prima di unirle. Il tutto è avvenuto con Scarlatti perché il primo disco in cui ho voluto, e mi sono sentito di unire i due linguaggi è statoPlays Scarlatti” (pubblicato dalla CAM JAZZ nel 2008). Qui ho improvvisato su Scarlatti; questo non significa però che improvvisavo jazzisticamente. In questo disco ho utilizzato un linguaggio musicale derivante in gran parte dalla mia passione per autori del ‘900 quali Darius Milhaud, soprattutto Paul Hindemith; musicisti sicuramente avanzati nell’utilizzo delle dissonanze, ma non distruttivi.

La tappa successiva è stata poi sempre in piano solo “1685 – Plays Bach, Handel, Scarlatti” (CAM JAZZ, 2011), una sorta di estensione del lavoro precedente.

E poi…

Mi ponevo molto, molto fortemente il problema della ritmica: il mio pensiero è che nel campo del cosiddetto crossover c’è tanto rischio di kitsch. Il mio terrore era di fare una cosa kitsch, perché ce n’è tanto.

Il grande Jacques Loussier ha avuto un’idea per certi versi geniale, ma nello stesso tempo ha creato un cliché: basta mettere basso e batteria e fai Bach un poco ritmato ed è fatta. Dal punto di vista estetico, questa per me è una sconfitta, nel senso che si può fare il crossover. Però non lo si fa semplicemente mettendo insieme un basso e una batteria, sottolineando certi aspetti ritmici, perché quello può essere un giochino. Quella musica merita qualcosa di più; allora, ecco il passo successivo a cui ho pensato parecchio, perché fra il secondo progetto in piano solo e “Menage a Trois” (CAM JAZZ, 2016) trascorrono credo 13 anni, perché il mio timore era come organizzo la musica classica quando ci metto basso e batteria? La risposta è stata: arrangiare; fare degli arrangiamenti elaborati.

Prima di tutto non “jazzificare” tutto, perché non tutto si presta. Bisogna essere molto selettivi nella scelta dei materiali; una volta che il materiale si è rivelato giusto, allora ho preso pezzi da Schumann, da Liszt, da Faurè, eccetera. Bisogna arrangiare, ossia fare un lavoro, in un certo senso di ricomposizione.

Ulteriore sviluppo il suo progetto dedicato a Debussy, Monsieur Claude. A Travel With Claude Debussy (Bonsai Music, 2018), in occasione del centenario della sua morte.

Qui l’aspetto dell’arrangiamento è diventato più importante. Una formazione in trio, con Andrè Ceccarelli alla batteria, Diego Imbert al contrabbasso, e poi due ospiti: David El-Malek al sassofono in alcuni brani, e la cantante Simona Severini in altri.

Ho scelto composizioni come La fanciulla dai capelli di lino che è diventato Cheveux, oppure Bluemantique, che in realtà viene dal Valse Romantique, che è un pezzo bellissimo. Lì ho preso il tema, l’ho rielaborato, cioè ho aggiunto altri temi miei, cioè il lavoro di ricomposizione, ed il brano è diventato ancora più ampio.

Questo disco, dettaglio di non poco conto, presenta una bellissima copertina.

È di un grande artista Emiliano Ponzi, che aveva realizzato anche la copertina di “Menage a Trois”.

Senza voler dare origine a discorsi lunghi e complessi, come reputa la didattica musicale del nostro paese?

È sicuramente un periodo complicato. È innegabile che i Conservatori abbiano dei problemi di rapporto con la realtà musicale esterna. Detto questo, sono molto contento della partecipazione di studenti che hanno frequentato la mia masterclass nella città di Campobasso.

Io offro una testimonianza; semplicemente più che un insegnante, mi reputo un testimone: avendo un po’ di anni ho accumulato numerose esperienze che credo raccontate in maniera diretta, possano non tanto insegnare, ma segnalare, che è esistito, può esistere, un mondo diverso da quello attuale.

Sono esistite persone che hanno vissuto la musica in maniera diversa, rispetto al modo in cui viene vissuta oggigiorno. Credo sia una testimonianza importante; in un certo senso mi sento un po’ come un marziano che va a visitare un altro pianeta.

E quindi più che altro faccio da stimolo, segnalo un altro modo di pensare alla musica, perché mi sembra ci sia una grande anestesia, una grande stasi. Le cause sono state analizzate da sociologi, psicologi, musicologi. Ho l’impressione però che certi musicologi si rapportano alla musica come se fosse sempre un po’ ferma, sotto una campana di vetro, ma non è così.

C’è un mio grande collega, Bruno Canino, con cui ho realizzato un disco completamente classico (“Americas”, CAM JAZZ, 2016), che in suo scritto (“Senza Musica”, Passigli Editori, 2015) ipotizza addirittura la scomparsa o quasi la fine della musica. Ipotesi forse troppo pessimistica, però effettivamente si respira un’aria complessa, un’aria difficile.

Questa situazione potrebbe anche durare decenni oppure no; staremo a vedere. Una cosa è certa: i mezzi di comunicazione hanno influenzato e influenzano il linguaggio musicale, nel senso che danno prevalenza a certe modalità di accesso ai linguaggi che alla fine contribuiscono a modificare i linguaggi stessi.

E questo è un fenomeno su cui noi musicisti non abbiamo un completo controllo, cioè le macchine sono più potenti di noi, sia dal punto di vista del funzionamento loro interno, sia dal punto di vista della diffusione commerciale.

Questa è una cosa che avverto molto e che influenza anche i rapporti coi giovani, perché i giovani naturalmente hanno un altro codice di ricezione, di percezione, rispetto a quello che invece io ho avuto da ragazzo.

Oramai i teenager non sanno cosa sia un disco; ascoltano singoli brani su Spotify, astraendoli dal disco, dal progetto originario.

Mi sembra un esempio corretto. Il ragazzo che ascolta un suono non è interessato a conoscere chi lo produce: Stan Getz, John Coltrane, oppure Joshua Redman, per fare solo un esempio. Non si sa null’altro di quel suono; è un suono disperso nell’etere, senza altra identità.

Progetti futuri?

I prossimi lavori, facendo sempre riferimento a un certo eclettismo, saranno con il mio trio italiano, che comprende Luca Bulgarelli e Mauro Beggio. Recentemente abbiamo ripreso con loro il progetto dedicato a Fellini.

Da pochissimo ho inciso un disco in Danimarca con due musicisti meravigliosi: uno è il batterista André Ceccarelli, l’altro è il bassista danese Thomas Fonnesbaek, incredibilmente bravo.

A breve andrò a registrare un progetto crossover, dedicato alla musica di John Lewis: Blues on Bach. Lewis, come si sa, era sia un grande pianista di jazz, ma anche un super appassionato di Bach e del contrappunto. Il lavoro coinvolge il mio trio italiano, più un’orchestra classica di 10 elementi, quintetto d’archi e quintetto di fiati. Il tutto arrangiato e diretto da un bravissimo musicista di origini pugliesi, ma ormai trapiantato a Bologna, che si chiama Michele Corcella. Probabilmente sarà pubblicato dall’etichetta Abeat.

Insomma, mi do da fare in molteplici direzioni.

Un’ultima domanda: consigli di ascolto per i nostri lettori.

Ho ascoltato di recente il bellissimo “RoundAgain” (Nonesuch Records, 2020) di Joshua Redman, in quartetto con Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade.

Devo dire che mi piace molto Sting: brani come Sister Moon, oppure The Secret Marriage. Lui è un musicista, ha una bellissima capacità narrativa e un bell’eclettismo. Ricordo il concerto che fece con l’orchestra di Gil Evans, a Umbria Jazz.

Altro disco che suggerirei è un lavoro straordinario di Chick Corea, pubblicato nel 2012 dalla Deutsche Grammophon: “The Continents”, per quintetto jzz più orchestra sinfonica. Sei suite scritte da lui, ognuna delle quali dedicata ad un continente, incluso l’Antartide. È un disco con molta apertura, con molte idee, con sonorità bellissime. Insomma, scrittura di grande livello.

 

Link:

Enrico Pieranunzi