Parliamo ora di un lavoro alto, pregiato, di quella cultura che torna prepotentemente in un modo antico di pensare al suono come vettore narrativo e costume sociale, tra teatro, maschere e vita di piazza. Siamo a Napoli nel XVII secolo e quello che abbiamo davanti è un lunghissimo lavoro di ricostruzione e di ricerca, di quel suono che i commedianti dell’epoca portavano in scena nelle piazze della città. Alessia Luongo ha studiato tutto questo e ha riportato alla luce quel certo modo di suonare e di pensare alla forma canzone attraverso strumenti della tradizione quali la chitarra battente o il colascione. Una ricerca che ha visto la preziosa collaborazione di Manuel Pernazza (ambasciatore nel mondo della maschera di Pulcinella, col quale collabora e porta in scena in tutto il mondo spettacoli-musicali che coinvolgono l’opera buffa, la musica e la commedia dell’arte) e con il M° Roberto De Simone. Esce per la RadiciMusic Records “Largo di Castello – balli e canti su colascione e chitarra battente alla maniera antica”, disco di totale immersione in un tempo lontanissimo di cui si hanno solo rare documentazioni… da queste lo studio ha portato al suono reale che ascoltiamo da questo disco… che poi diviene anche uno spettacolo, tra musica e teatro, quel teatro “buffo” dentro cui capeggiano le maschere come protagoniste assolute.

 

 

Parliamo di suono e di produzione: com’è stato registrato questo lavoro? In presa diretta immagino…
Questo lavoro è stato faticoso. La chitarra battente è uno strumento strepitoso, ipnotico e che io sento davvero, detto in maniera più istintiva, “di pancia”. Tuttavia, soprattutto il modello che io ho scelto, ha delle caratteristiche che lo hanno reso non difficile, ma leggermente faticoso registrarlo. Alcune particolarità sono che è difficile mantenere un’accordatura stabile e anche che a seconda di come la si suona, risulta stonata anche se perfettamente controllata a livello di accordatura, per cui è anche il tocco a fare la differenza e va giostrato ricercando. Siccome mentre registravo, le chitarre (ho registrato con ben tre chitarre diverse, un chitarrino Costantino De Bonis, una chitarra Costantino De Bonis e un’altra chitarra Vincenzo De Bonis) tendevano ad avere dei momenti in cui perdevano l’accordatura, ero costretta a rifare tutto il pezzo per intero, o a rifare determinare parti. Insomma, un lavoro certosino ma sicuramente ne è valsa la pena, anche se riascoltarlo per ore è stato davvero uno “straniarsi” nella sua funzione antropologica più profonda.

 

E appunto parlando di resa acustica… come hai regolato le tue scelte in merito? Quando hai ritenuto che il suono fosse vicino a quello dell’epoca?

Ho avuto bisogno di diversi riscontri, soprattutto da parte di chi ha potuto udire suoni più puri e non contaminati. Personalità di spicco come il Maestro Roberto De Simone sono state la mia guida; il Maestro ha tutti i riferimenti per poter arrivare al suono più puro. Poi a un certo punto arriva la fantasia che lavora e, attraverso lo studio, può cercare di colmare determinati buchi. È per questo che intendo sempre precisare che il mio non è un lavoro di tradizione in alcun modo, bensì quasi una ricerca, un recupero storico. Non ho seguito fedelmente, per esempio, i tempi musicali naturalmente arrivati con l’avanzare degli anni, piuttosto ho cercato di andare più “indietro” e riportare i tempi più antichi. Ecco qui che lo studio della musica barocca si è perfettamente sposata con la mia ricerca, perché ho potuto sentire andamenti, sonorità e diverse modalità che sono molto antiche, ormai quasi desuete all’orecchio degli ascoltatori di oggi. Ho poi cercato di immaginare come potesse essere cantare e suonare quel repertorio proprio dalle persone di estrazione sociale più bassa, come quelle che vi erano nei dipinti e nelle iconografie. Avete presente quei dipinti in cui si vede che in confusionarie tavolate vi sono dei musicisti vestiti in maniera semplice che danzano e ballano con strumenti in mano? Ecco, quello il mio riferimento. Da qui ho cercato il compromesso nel commediante dell’arte, che era comunque una figura popolare, quindi di estrazione umile, ma di gran cultura e ingegno. I commedianti, infatti, erano eruditi e scrivevano composizioni poetiche, come la grande Isabella Andreini, donna immensa a cui Torquato Tasso addirittura dedica dei versi. Non penso assolutamente di essere arrivata al punto in cui questo suono è il più fedele possibile, ma sicuramente unire tutti i mondi della mia immaginazione ha creato qualcosa di radicato in una dimensione a sé.

 

 

Di quel tempo naturalmente abbiamo solo iconografie, scritti… esistono anche strumenti? E sono raggiungibili? Li hai mai suonati?

Esistono degli strumenti, sono conservati nei musei. Alcuni musicisti suonano strumenti di epoca e ascoltarli è un’esperienza. Io non ho mai suonato su strumenti databili a quelle epoche, li ho visti e attualmente suono sulle copie che sono state studiate dai liutai. Sicuramente il lavoro del liutaio è qualcosa di infinito: pensare e ricostruire quei suoni che sono oggi chiusi in teche o che comunque sono così particolari, è davvero un incredibile lavoro. Attraverso il loro studio e precisione riusciamo ad avvicinarci sempre di più a come potevano essere. Ma appunto, sono sempre lavori che tendono solo ad “avvicinarsi” alla verità.

 

Che significa “maniera antica”? Che maniera era? Abbiamo perduto anche quella?

La “maniera antica” degli strumenti che io ho inciso è esattamente quello che io faccio nel disco: il loro uso per danze e per accompagnare il canto. Non è totalmente perduto, per fortuna, perché qualcuno resiste e persiste in questa maniera. Oggi si demonizza la “semplicità” perché forse svela troppo, non si sa. Ma in realtà è proprio in quella che l’interprete deve avere un pozzo infinito di creatività a cui attingere.

Metto le mani avanti e dico che è una maniera antica proprio perché la sfida è di racchiudere un discorso tramite strumenti che però continuano ad avere una loro storia oggi.

Diciamo che “maniera antica” è più una difesa per me e per mettere in allerta chi ascolta; se ti aspetti le ultime “evoluzioni” di tali strumenti sei nella ricerca musicale sbagliata. Infatti, la chitarra battente ha addirittura cambiato estetica e maniera di suonarla. Per tale, mi rifugio in questa maniera che è antica, che è nei meandri della storia. Una maniera che abbia ancora la forza di essere catartica, o che possa raccontare storie, che possa emozionare tramite andamenti di grande impatto e che possa comunicare ancora più largamente col pubblico.

 

La diretta discendenza di quel mondo oggi in cosa la possiamo rintracciare?

In poco o niente. I cantori sono quasi spariti, ogni tanto vedo degli ottimi musici della tradizione, ma anche loro sono pochi… la musica di questo genere è diventato altro. Ormai ognuno fa le proprie contaminazioni, senza avere a cuore lo studio filologico. Ecco perché in questo senso il mio album parte da questa sfida: riportare tutto nella maniera più arcaica possibile e ricordare da dove tutto comincia. Dire all’ascoltatore “Ricordi questo brano? Esatto. Hai presente quando lo hai ascoltato eseguito con tre fisarmoniche, un basso elettrico e una batteria? Ottimo: dimenticalo. Ha origini più profonde e sentite. Hai presente quando lo hai ascoltato nella sala da concerto eseguito dell’ensemble infinito con clavicembalo, chitarra barocca, arciliuto e flauto? Ottimo: immaginalo però fatto dal popolo, per davvero.” È precisamente in questo frangente che si colloca il mio album: tra il musicista raffinato che non si scompone neanche per un attimo mentre esegue una tarantella, all’esecutore di oggi che ha bisogno di contaminarlo. Non ho la presunzione né la voglia di portare un lavoro di tradizione, bensì un lavoro di immaginazione, che possa conciliare e fantasticare quei canti a cavallo tra musica e teatro. “Come tirerebbe le corde un antico commediante”.