Dinamiche che da un notturno non mi aspetterei. E poi quella contemplazione che invece sa bene regalarmi il senso di un’attesa. “Blue Bird” è il nuovo disco in piano solo di Vito Schiuma, lui che all’America ha chiesto i natali del suo sentire e del suo modo di concepire il suono. Ed ecco che all’America di Charles Bukowski chiede ancora un dono di ispirazione cercando anche di restituire al piano solo anche quella “sporcizia” di vita consumata. E, se posso avventurarmi, con entusiasmo direi che tutto questo ha il dono della sintesi della complessità che abbiamo ogni giorno nel vivere la vita comune…

 

 

C’è tantissima variazione dentro, anche nei respiri più sospesi. Come se dentro cercassi qualcosa… come se il vero obiettivo è cercare e non trovare… che mi dici?

Hai colto nel segno. La musica è l’arte meno palpabile, in connessione direttamente con il nostro inconscio. Trovare equivarrebbe a sedersi su una zattera, non vi sarebbe alcuna certezza. In questo lavoro ho voluto più semplicemente fotografare un periodo compositivo, un po’ come quei selfie che si fanno quando siamo soli e senza un vero motivo. La ragione, in “Blue Bird”, è molto chiara: nessuna composizione merita di essere soffocata proprio perché diretta espressione di quello che viviamo al momento o che pensiamo di vivere.

 

L’improvvisazione? Che ruolo ha avuto?

L’improvvisazione è una tecnica compositiva come altre, in questo caso il ruolo sembra marginale perché limitato a due brani (First Love e Go All the Way), ma nel bilancio complessivo l’importanza è stata elevata. Sapere di poter ricorrere ad un mezzo espressivo estemporaneo libera dalle costrizioni delle note sul pentagramma. Permette, come dicevamo prima, di inseguire un respiro, di rivisitare luoghi con occhi diversi. La parola improvvisazione in italiano ha due accezioni, come nell’animo di questo paese, una negativa e un sinonimo di capacità creativa. Quando si incide un disco l’improvvisazione è meno legata al luogo in cui essa si ingenera e ha un potere più rievocativo. Inoltre, osservando la sequenza dei brani, è chiaro che la presenza imponente di parti improvvisative nell’ultimo brano è una chiara indicazione di quello che sarà.

 

Quanto e in che modo tutto questo si lega all’America dei tuoi esordi?

L’America ancora oggi ha un modo diverso di guardare alla realtà, meno legato al passato, meno incentrato sul formalismo e l’accademismo. Scoprire che è possibile suonare uno strumento di matrice classica con meno attaccamento ai grandi del passato, ma una maggiore focalizzazione verso il sentire ha avuto un impatto notevole su quello che io abbia pensato di poter realizzare nella musica. Lo stesso Bukowski era uno scrittore non interessato al sofismo, alle parole vacue. Oltre a tutto questo, nell’America di quindici anni fa ho imparato che i generi musicali non esistono più e soprattutto che al pubblico non interessano le categorie, tutto ciò mi ha spinto a pubblicare queste composizioni che altrimenti sarebbero rimaste nel cassetto. A livello puramente musicale, l’obiettivo unico e dichiarato di questo EP è suscitare emozioni spostando suoni e silenzi nella testa dell’ascoltatore: un obiettivo tanto ambizioso quanto naïve. Più americano di così!

 

 

E dall’Italia e dal modo di pensare al suono, che cosa hai preso?

L’Italia ha un enorme patrimonio musicale da cui ho provato e provo a prendere più che posso. Non solo nel passato, ma ancora oggi, nella musica contemporanea, l’Italia esprime idee che la distinguono dal resto del mondo, sebbene l’impatto commerciale non sia più quello di un tempo per ovvie ragioni. Al mio Maestro Gianvincenzo Cresta devo tutta la mia concezione di come occupare con i suoni spazio e tempo, dimensioni irripetibili e impalpabili che non devono essere sprecate.

 

E se ti dicessi che in fondo questo è un disco di jazz?

Lo prenderei come un complimento. Vorrebbe dire che nel tentativo di fare altro sono riuscito comunque a far emergere tratti della mia esperienza nella musica improvvisata. Non è la prima volta che mi si fa notare quanto da mie composizioni “scritte” emergano inevitabilmente topoi di natura jazzistica. Io non mi considero propriamente un musicista jazz, ma del resto il jazz questo è: il più grande esempio di commistione musicale di almeno tre continenti. Il musicologo Renzo Cresti mi fece notare quanto le armonie americane fossero irrimediabilmente entrate nel mio linguaggio compositivo e certo non sono il primo a farlo.