Vi sarebbe la tentazione di sorvolare sulla presentazione dell’affermato fantasista della percussione, stante l’estesa e trasversale partecipazione, da protagonista o collaborativa, alla scena musicale jazz, fusion e più segnatamente “avant”.

Dalla nota e significativa militanza presso la band Aires Tango, fascinoso gruppo di matrici argentino-italiche di cui ha costituito il motore ritmico, il batterista-percussionista Michele Rabbia, di natali torinesi ma di passaporto ormai internazionale, ha continuato ad evolvere su più direzioni e fronti espressivi la propria arte, nelle orbite o di concerto ad una lista ormai impressionante di talenti di più generazioni (come approfondiremo più avant) tra cui Ralph Towner, Roscoe Mitchell, Enrico Pieranunzi,  Antonello Salis, Marilyn Crispell e così via, oltre le associazioni con i fedeli nordici Eivind Aarset o Ingar Zach, ma non è certo secondaria la sua vena espressiva in forma di performance individuali di libera espressione, in cui pone in campo un’eterogeneo instrumentarium percussivo, che ormai tipicamente incorpora devices elettronici ed informatici nell’edificazione di un ancor più ampio soundscape, contornato e segnato da una gestualità riflessiva e pregnante.

Buona parte di quanto descritto, che copre già alcuni decenni in arte, è stato fissato licenziando una messe di testimonianze discografiche per diverse label (tra cui CamJazz, ECM o Dodicilune); abbiamo pertanto voluto tentare un approfondimento ed un aggiornamento di questa grande identità musicale mediante un incontro e un dialogo  improntato, come è del personaggio, a cortesia e franchezza nonché spunti d’elevato contenuto, che iniziamo citando una frase dal suo diretto e personale pensiero:

 

“Il suono, il gesto e l’azione, come anche il silenzio, sono tratti caratterizzanti della mia musica”.

 

 

Così si esordisce nel tuo website; comincerei parlando del “gesto”, da te enfatizzato anche come grande appassionato di danza.

Per me il gesto è la base del mio essere interprete. Il suono si forma attraverso il gesto e la gestualità corporea si fonde con il linguaggio sonoro dando vita ad un unicum. La danza è stata per me uno stimolo costante, visualizzare una danza in assenza di musica mi rimanda ad un’idea di suono anche se impercettibile. In questo senso Cecil Taylor è stato un maestro, ricordo di un suo concerto a Roma in cui entrò sul palco con fare danzante e gestuale, e le prime note del piano che emise erano la traduzione in musica del suo comportamento gestuale. Per cui sì, il gesto è parte integrante della musica e sicuramente del mio modo di approcciarla.

 

E, naturalmente, del tuo rapporto (o della tua dialettica) in musica con il Silenzio.

Il silenzio è un altro ingrediente di grandissima importanza: la musica, come ogni linguaggio, ha bisogno di suono e di silenzio per potersi esprimere. Lo spazio bianco di un pittore sula tela, l’assenza di suono che prepara una frase teatrale e chiaramente la musica che si sviluppa in continua sequenza di suoni-silenzi. Devo dire che il mio rapporto musicale con i musicisti del nord Europa è stato determinante nel comprendere quale peso importante abbia il silenzio sulla loro arte. Il silenzio profondo, quello che ti permette di ascoltare il silenzio con la stessa attenzione con cui si ascolta un suono.

 

Come intendi, ad oggi, l’espressione “jazz”.

Attraversare la storia del jazz, dai suoi albori ad oggi e un po’ come ricostruire gli avvenimenti che si sono succeduti nel mondo in cui viviamo. Ho sempre pensato al jazz come uno specchio sociale in cui venivano interpretati i disagi, la collera, la felicità, la rinascita, le difficoltà … tutti aspetti che sono stati portati dentro questo grande contenitore che il jazz ha espresso negli anni. Oggi, forse, il “jazz” è diventato più una musica tecnica e a volte un po’ distante dalle persone, distaccandosi un po’ da ciò che esprimeva precedentemente, puntando di più su scelte di carattere stilistico e formale ma con una minore forza di denuncia o specchio sociale, temo semplicemente di vederlo più richiuso su se stesso.

 

E l’espressione “free”.

La musica è free in generale, nel senso che è libera. Non amo le etichette, anzi le detesto, ma free inteso come corrente musicale è stato un contesto per me molto importante e ha dato l’accesso ai musicisti europei di esprimersi, anche se con modalità diverse, allo strapotere americano del jazz. Ci sono tantissimi musicisti europei, divenuti capiscuola: Han Bennink, Misha Mengelberg, Tony Oxley, Evan Parker, Derek Bailey e tantissimi altri che hanno reso possibile la condivisione sullo stesso piano con i musicisti d’oltre oceano, penso ad esempio al duo Taylor-Oxley.

 

Strutturata carriera: tornerei a certe tue frequentazioni jazz più canoniche, e la memoria va, ad esempio, ad Aires Tango.

Sì, un’esperienza davvero importante. Aires Tango è stato il primo gruppo con cui ho iniziato il mio percorso di sperimentazione strumentale. Devo ringraziare tutti i ragazzi per avermi dato questa possibilità. L’idea di Javier Girotto era quella di mescolare il tango argentino con delle radici più contaminate, ad esempio la musica classica, il jazz, la musica contemporanea e l’improvvisazione. Sono stati anni di prove e di tanti concerti, nei quali abbiamo cercato una nostra identità. Una palestra, un laboratorio artigianale, questo è stato a mio avviso il gruppo, che oggi ha più di venticinque anni e anche se con non molte occasioni continuiamo a portare in giro.

Vorresti operare una sintesi delle tue collaborazioni con i jazzmen italiani, e quale sia il comune, complessivo contributo al mondo del jazz?

Il jazz italiano gode di ottima salute, su questo non ho dubbi! C’è un fior fiore di giovani musicisti che lavorano e cercano instancabilmente delle nuove vie o più semplicemente mantengono vivi linguaggi già cifrati, ma con un occhio leggermente diverso. Il fatto che i giovani siano molto esposti a vari tipi di contaminazione cultural-musicale fa si che anche suonando del jazz più “classico” abbiano comunque un’influenza attorno a loro che li spinge verso nuovi interrogativi espressivi.

Per quanto riguarda la vecchia scuola del jazz italiano, basterebbero soltanto due nomi per far comprendere che livello ci sia: Franco D’Andrea ed Enrico Rava, ma a mio avviso è doveroso ricordare anche musicisti come Salis, Pieranunzi, Urbani, Battaglia, Di Castri, solo per citarne alcuni che il mondo ci invidia. Ho avuto la fortuna di collaborare con tantissimi musicisti italiani e con molti di loro ho stretto negli anni anche un legame di forte amicizia che fa sì che le nostre collaborazioni abbiano continuità negli anni, ad esempio quest’anno è il ventennale della nascita del duo con Stefano Battaglia…

 

Per quanto attiene le frequentazioni avant-jazz, alcuni nomi sono di notevole spessore: Marilyn Crispell, Eivind Aarset, Jan Bang, Roscoe Mitchell…

Tutti questi personaggi che hai appena menzionato hanno contribuito enormemente al mio pensiero musicale. Non so se volutamente, ma hai centrato quattro musicisti di due diverse aree geografiche e di due generazioni lontane, ma che sarebbero a mio avviso un super quartetto. Questo perché la loro singola poetica e la loro onestà intellettuale li portano, anche con le differenze dovute, a far parte di quelle figure che io reputo dei punti di assoluto riferimento per la loro unicità musicale, per la loro riconoscibilità estetica ed il contributo che stanno ancora dando alla musica. Ho davvero imparato tantissimo da tutti questi grandi musicisti e suonare al loro fianco è un privilegio immenso.

 

Ho avuto un’interessante occasione d’intervistare anche Ingar Zach, tuo recente partner in un cimento quasi “gemellare”; cosa puoi condividerne con noi?

Ho iniziato la mia collaborazione con Ingar da pochi anni, ma in questo momento è uno dei progetti a cui tengo di più. Primo perché ho trovato, sotto il profilo umano, una persona splendida e poi perché il suonare con lui mi crea uno stato di semplice divertimento e leggerezza. Malgrado ci siano delle similitudini nei nostri set (entrambi usiamo la grancassa sinfonica e il rullante) abbiamo due personalità molto distinte; lo stesso vale per l’uso dell’elettronica, dove le nostre visioni sono diametralmente opposte ma trovano una forma di convivenza ottimale. Vorrei anche tornare un attimo indietro nelle tue domande perché Ingar è a mio avviso un vero maestro nell’uso del silenzio, basti pensare al suo gruppo Dans les Arbres, qui la qualità del singolo suono e del silenzio creano un equilibrio perfetto, ricco di emozione e poesia.

Per concludere vorrei dire che l’idea di creare un duo con Ingar è nata da una proposta discografica di registrare tre formazioni con le percussioni, infatti oltre al mio solo e al duo con Ingar ho formato un trio di batterie con due musicisti meravigliosi: Julian Sartorius, giovane batterista svizzero e Martin Brandlmayr, batterista austriaco membro del gruppo Radian.

 

Un’altra recente partnership: il tuo duo con Eivind Aarset triangolato con il trombonista Gianluca Petrella, ennesima esperienza il cui soundscape mostra che gli elementi strumentali possono trascendere la loro identità.

Eivind per me è ormai un po’ come un fratello: sono diversi anni che collaboriamo insieme e trovo il suo modo di suonare unico e poetico. È uno di quei musicisti rari che riescono a creare delle stanze sonore sulle quali puoi avventurati con libertà, luoghi che evocano grandi spazi in cui poter esprimere le proprie idee. Sono affascinato dalla dedizione e dal rispetto che Eivind pone nella musica e penso che sia uno dei musicisti che più mi ha ispirato negli anni. Per quanto riguarda il trio con Gianluca è nato grazie ad una felice intuizione del produttore Manfred Eicher, che su proposta di registrare il duo con Eivind ha avanzato l’ipotesi di aggiungere un ulteriore musicista. Sono davvero felice di questa formazione, perché Gianluca è stato da sempre uno dei miei musicisti preferiti e non solo tra quelli italiani …

 

Potremmo categorizzare in qualche modo i tratti che accomunano i partner italiani o, rispettivamente, europei ed americani?) – o piuttosto, la comunicazione in musica fluisce al di sopra di idiomi e confini?

Quest’ultima assolutamente: ho incontrato tantissimi musicisti sia in Italia che nel resto del mondo che mi hanno davvero regalato tante emozioni. Penso ad Antonello Salis, Roscoe Mitchell, Stefano Battaglia, Andy Sheppard, Daniele Roccato, Marc Ducret, Roberto Cecchetto e tantissimi altri. Non esistono differenze quando si suona, se non quelle che contraddistinguono tutti gli esseri umani, a mio avviso si tratta solo di esperienze vissute e riportate dentro la propria musica. Mi basta pensare a due musicisti che ho appena citato e che provengono dal nostro stesso Paese, Battaglia e Salis, due galassie musicali a mio avviso distanti, ma entrambi accomunati da talento e amore sincero per quello che fanno.

Nella tua più che sfaccettata traiettoria ti sei anche devoluto all’arte di un grande ricercatore della forma e pensatore: Giacinto Scelsi.

Questo è stato un progetto, sfortunatamente, solo discografico, perché abbiamo incontrato molte difficoltà nel portarlo dal vivo. Consiste in un trio composto da Daniele Roccato al contrabbasso e Ciro Longobardi al pianoforte, due eccellenze della musica contemporanea. Per me è stato un nuovo modo di approcciarmi alla musica, perché c’erano molti nuovi spunti e vedere il loro metodo di studio e di lavoro mi ha aperto nuove finestre, facendomi riflettere su alcuni aspetti musicali come la vastità di colori e sfumature, un diverso approccio all’interpretazione di un brano e ad un controllo più focalizzato sullo strumento.

È un capitolo della mia vita che mi ha dato la possibilità di avvicinarmi maggiormente alla musica contemporanea, in più affiancato da due incredibili musicisti quali appunto Roccato e Longobardi, che hanno inculcato in me un certo rigore di cui necessitavo. Il progetto che abbiamo dedicato alla figura di Giacinto Scelsi si è sviluppato intorno alla scelta di gesti musicali del compositore, poi riadattati alle nostre esigenze stilistiche ed interpretative.

 

Un racconto della Percussione, dal punto di vista del tuo instrumentarium (e della tua soggettività).

Il mio modo di vedere la percussione è strettamente connesso alla cernita degli strumenti e delle sonorità. Io sono interessato a tantissime forme musicali, la contemporanea, il jazz, il rock, la musica noise e industriale, la classica, il country e da ognuna cerco di estrapolare materiale sonoro che poi cerco di utilizzare nella preparazione dei miei set.

Il mondo della percussione è talmente vasto e sconfinato che spesso impone delle limitazioni, ad esempio di ordine logistico: io desidererei immensamente portare i miei strumenti ai concerti che faccio o durante le registrazioni, ma al 99% dei casi sono impossibilitato per via delle dimensioni e dei pesi eccessivi, perché si viaggia tantissimo con treni e aerei. Per cui, negli anni, sto cercando di mettere a punto una mia filosofia musicale che mi permetta, ovunque ci si trovi, di poter mantenere una certa riconoscibilità nel mio modo di suonare con quello che ho a disposizione. Certamente l’elettronica, nel mio caso usata come estensione ed elaborazione del mio suono acustico, mi ha data una ulteriore possibilità nel dare forma al mio suono.

E chiaramente i set di percussioni e spesso anche le elaborazioni elettroniche variano a seconda del contesto in cui sto suonando, ma questa variazione rimane all’interno di un’idea precisa che ho in mente.

 

Siamo edotti anche di alcune tue collaborazioni nell’ambito letterario: in quali forme?

Mi piace e mi interessa mescolare le carte delle forme espressive, musica e pittura; musica e danza; musica e parola… Affiancare un attore, penso che sia una delle discipline più difficili da far convivere con la musica, perché la parola, malgrado la sua potenza, ha una fragilità e delicatezza che la musica può travolgere e sottomettere se non si fa attenzione. D’altro canto, non amo l’idea di commento sonoro in cui c’è la recitazione che riempie la sala e la musica che la commenta. Per questo dicevo che è un difficile abbinamento, fatto di tante sfumature, ma è fondamentale trovare un bilanciamento perfetto in modo che si integrino l’una nell’altra creando la parola musicale.

 

La Musica è sempre avventura?

Sarebbe falso non ammettere che a volte non si possa cadere in certe routine, ma la cosa importante è mantenere vivo il più possibile lo spirito del gioco e dell’improvvisazione. Ricercare costantemente la complicità con gli altri musicisti e osare senza troppo timore. …

 

Ritieni che la Tua arte sia portatrice di una qualche etica?

Personalmente cerco di seguire una linea espressiva in modo coerente e rispettoso nei confronti della Musica.

 

Qual è il tuo rapporto con i social e le piattaforme musicali (nella promozione culturale in generale; nell’auto-promozione in particolare)?

Ammetto di non essere in realtà un grandissimo fan della promozione musicale via social o altre piattaforme ma riconosco che, a saperla gestire bene, oggi possa portare molti vantaggi.

 

Giorni presenti, nuove criticità: una ferita alla società dello spettacolo o una “feritoia” verso realtà ulteriori?

Questi giorni che abbiamo attraversato potrebbero condurci verso un futuro a noi completamente sconosciuto, per cui non voglio dire che potrebbe essere meglio o peggio: semplicemente tante cose cambieranno e bisognerà solo mettersi in ascolto e capire dove e come agire affinché le nostre vite possano continuare a guardare avanti con occhi nuovi un mondo diverso. Vorrei però sottolineare che in questo periodo di solitudine ed inquietudine l’arte (musica, poesia, letteratura, cinema …) ci avrà accompagnato ad essere meno soli e tristi. L’arte c’è e ci sarà sempre, perché è uno dei pilastri della vita.

 

Qual è il bilancio del “mestiere” dell’artista?

Oggi, forse più che mai essere un musicista, un danzatore, un attore o un pittore richiedono una conoscenza più vasta che immagino fosse quella dell’artista anche solo cinquant’anni fa. Allora si poteva vivere in una grande città con una cifra modesta, gli affitti erano a misura d’uomo così come il mantenimento e i concerti. Oggi questo è cambiato completamente, gli affitti sono esorbitanti, così come il prezzo dei biglietti per i concerti, e in questa epoca l’artista deve essere anche promotore del suo lavoro, fiscalista e manager… per cui spesso si rischia di perdere il vero centro della creatività a discapito dei corollari esterni che dobbiamo affrontare. Ripongo la salvezza di tutto questo nelle persone devote ed instancabili nella promozione dell’arte come i centri sociali e le realtà autogestite. Chiusa la parentesi di questa non proprio rosea introduzione, penso comunque che sia uno dei “mestieri” più belli e siamo infinitamente fortunati nel poter vivere di questo. E aggiungerei che avvicinarsi all’arte è un’esigenza, qualcosa che si sente e per cui non ci si può esimere del farlo.

 

Una indicazione a chi approcciasse adesso il mestiere della musica (o dell’arte).

L’unica cosa che mi passa per la mente è quella di affrontare questo cammino di vita con serietà e rispetto, perché la musica e così l’arte in generale recano tanta bellezza non solo a chi la fa, ma anche a chi ne usufruisce, per cui ha bisogno di essere protetta e amata.

 

Quaerendo invenietis” (J. S. Bach): la tua ricerca ha già fissato qualche punto fermo o lo scenario permane aperto?

“Cercando troverete”… Lo scenario “deve” rimanere aperto, la ricerca è continua e per ciò che mi riguarda è il primo sguardo del mio modo di vedere la musica. Le mie giornate passano attraverso le sperimentazioni di nuove sonorità, di abbinamenti di colore sonoro di impiego di materiale musicale in contesti diversi. Penso che ogni musicista debba avere una propria visione di quello che vuole esprimere e lavori in quella direzione. Questo per dire che la musica in ogni ambito e stile deve essere sempre dettata dalla ricerca di nuove frontiere e possibilità.

 

Una risposta (o un aforisma) a piacere…

“Non dipingo la realtà fisica di questo tavolo, ma bensì l’emozione che essa provoca in me”. (Henri Matisse)

 

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Michele Rabbia

Foto
Dragoslav Nedici
Andra Boccalini