Abbiamo incontrato Federica Michisanti davanti a un caffè a Napoli nel novembre dello scorso anno, dopo tre anni circa dal primo contatto che avevamo avuto. È stata un’occasione per parlare del suo percorso artistico e dei suoi progetti, focalizzando poi l’attenzione sul suo ultimo lavoro, “Afternoons”, pubblicato da Parco della Musica Records meno di due mesi prima.

 

Ciao Federica. Grazie per aver accettato l’invito. Sei una compositrice e una contrabbassista con un passato da bassista elettrico. Tre anni fa hai vinto il Top Jazz. Cosa hai pensato quando ti è stato riconosciuto questo premio?

Si, tre anni fa vinsi il Top Jazz come migliore formazione dell’anno con il mio Horn Trio mentre due anni prima avevo ricevuto il premio come miglior nuovo talento. La prima volta ho provato stupore e contentezza, ma anche apprensione. Non mi ero mai occupata in precedenza di premi e classifiche, badando essenzialmente a suonare la mia musica.

 

Raccontaci come ti sei avvicinata alla musica e quando hai poi iniziato a studiarla.

Come ascoltatrice autonoma mi sono avvicinata alla musica verso i tredici o quattrodici anni. I miei primi ascolti sono stati Sting e i Police, i Led Zeppelin e tutto il mondo dell’hard rock e del rock progressivo. Ovviamente anche Jimi Hendrix, Janis Joplin, i Doors. Era quello il periodo in cui compravo in edicola i fascicoli di un’enciclopedia del rock, immergendomi quindi in quel mondo. Prima avevo conosciuto la musica che ascoltava mio fratello, più grande di me, che faceva le sue classifiche settimanali di musica dance degli anni Settanta e Ottanta. In seguito mi sono poi svincolata ed ho iniziato a studiare il basso elettrico all’Università della Musica e lì hanno iniziato a parlarmi di jazz.

Restando ancora sul rock e conoscendo il tuo amore per i Led Zeppelin, John Paul Jones è per te più un tastierista o un bassista? [domanda decisamente ‘marzulliana’, ndr]

John Paul Jones è sicuramente un genio, qualsiasi cosa lui faccia. Come bassista è fenomenale e sono convinta che Jaco Pastorius lo abbia ascoltato bene. Brani come The Lemon Song o What Is and What Should Never Be contengono linee di basso che anticipano la musica di Pastorius.

Ritornando al mio percorso, devo dire che al jazz sono arrivata tardi. Inizialmente non pensavo che sarei diventata una musicista anche perché, in realtà, la mia grande passione era il disegno. Nel 2010 ho poi scoperto di avere una predisposizione alla composizione, quando cioè Antonella Civale, mia amica e grandissima attrice, mi propose di commentare con il contrabbasso le sue letture delle opere di Achille Campanile. In quell’occasione scrissi dei temi come Time Store e Naturalmente, che sarebbero poi stati inclusi nel mio primo disco, “Trioness”, autoprodotto due anni dopo.

Così è iniziato il mio percorso, anche perché all’epoca non vedevo una mia collocazione nel mondo del jazz come sidewoman.

Quali sono stati i tuoi musicisti di riferimento in ambito jazz?

I primissimi ascolti sono stati il “Koln Concert” di Keith Jarrett e “Conference of the Birds” di Dave Holland. Il primo mi colpì quando ascoltai un pianista suonare il primo stupendo movimento di quel concerto, cosa che mi spinse ad acquistare subito il disco. Il secondo, che comprai a caso perché tutti parlavano di Holland, mi colpì per questo aspetto del jazz legato alla composizione. Quindi, due dischi non proprio be-bop dopo i quali arrivò una raccolta di Wayne Shorter con brani come Adam’s Apple (il mio preferito), Ju-Ju, Infant Eyes e altri. Poi scoprii Mingus.

Solo dopo ho iniziato ad accostarmi al linguaggio be-bop, a comprenderlo e ad apprezzarlo, ma inizialmente quella musica mi annoiava, soprattutto perché venivo da un altro mondo e non mi restava niente dall’ascolto di quei dischi.

 

In effetti, ci sono stati musicisti, come Monk o Mingus, che il be-bop lo hanno accompagnato senza farsi prendere completamente da quel linguaggio musicale.

Si, loro avevano personalizzato quel linguaggio e questa cosa, evidentemente, mi attrae di più.

 

I tuoi primi quattro dischi sono tutti in trio e in tutti ritroviamo un sassofono. Nella prima formazione denominata Trioness, con un pianoforte, ci sono tre musicisti che costruiscono insieme la musica, evidentemente sulla base delle tue composizioni e con un notevole senso dell’interplay. Negli altri due lavori con lo Horn Trio, troviamo invece una tromba al posto del pianoforte e sembra che i due fiati (la tromba di Francesco Lento e il sax di Francesco Bigoni) siano funzionali alla creazione di un tappeto sonoro mirato a liberare il solismo del tuo contrabbasso, con un approccio che ricorda un po’ il lavoro dei due fiati nel secondo quintetto di Miles Davis negli anni Sessanta.

In quei dischi è cambiata un po’ la scrittura. Quando sono passata allo Horn Trio ho iniziato a scrivere di più, soprattutto in “Jeux de Couleurs”, pensando alle tre voci come generatrici non solo del tappeto sonoro ma anche dei temi, mentre nei primi dischi la scrittura era più ‘regolare’ e, comunque, con dei temi riconoscibili che tuttora ripropongo quando c’è da suonare un bis ai concerti.

Con lo Horn Trio sono riuscita a realizzare una musica che fosse fondata anche sul contrappunto e sull’impasto dei fiati, cosa che ovviamente non puoi mettere in atto con il pianoforte che è uno strumento con limitate capacità di trattenere le note. In effetti, ciò che dici è vero e talvolta, sì, sono io che suono su di loro. Tra l’altro, in “Jeux de Couleurs” ci sono delle composizioni che sicuramente registrerò ancora con una batteria in organico perché, in effetti, all’epoca stavo già iniziando a pensare a una musica che prevedesse proprio quello strumento.

Hai parlato di batteria. Io parlerei più in generale di percussioni, soprattutto pensando a Michele Rabbia che ha preso parte alla registrazione del tuo ultimo disco, “Afternoons”, un lavoro che secondo me si candida ad essere eletto disco dell’anno. [il redattore veggente, ndr]

In questo disco ritroviamo anche un altro strumento ad arco, il violoncello di Vincent Courtois, una scelta assolutamente rischiosa che però ti ha dato ragione, perché il risultato è strepitoso, con i due strumenti che dialogano meravigliosamente. È poi c’è quell’altro musicista immenso che è Louis Sclavis ai clarinetti.

Come hai messo in piedi questa formazione?

Innanzitutto voglio risponderti sulla questione del rischio. Secondo me, quando suoni con questi grandi artisti il rischio non c’è perché loro si mettono a completa disposizione. Con Vincent, poi, si è creata una grande intesa, nonostante avessimo suonato soltanto ad un concerto prima di entrare in sala di incisione per il disco. Alle mie riflessioni condivise con lui a proposito del mio accompagnamento, lui mi ha da subito risposto che si trova benissimo e che quella è la maniera in cui vorrebbe sempre essere accompagnato durante un assolo.

Per mettere in piedi questa formazione ho dapprima avuto la possibilità di invitare Louis grazie a un premio speciale SIAE, che mi avrebbe consentito di suonare al festival “Una striscia di terra feconda” curato da Paolo Damiani, con un musicista francese a mia scelta. A Paolo mi azzardai a chiedere se fosse possibile averne due, di musicisti francesi, indicando anche il nome di Vincent che, però, all’epoca aveva un problema ad una spalla, per cui suonai la prima volta con Louis insieme al mio Horn Trio, scrivendo nuove partiture ed adattando altre composizioni già scritte.

Quando Roberto Catucci, di Musica per Roma, mi ha proposto di realizzare un nuovo disco, ho subito pensato a Louis Sclavis e a Vincent Courtois e poi, consapevole della necessità di avere qualcuno che fosse più di un batterista, la scelta è inevitabilmente caduta su Michele Rabbia. Sarò quindi per sempre grata a Paolo ma anche a Louis che, avendo da tempo un rapporto forte con Vincent, ha speso parole favorevoli su di me, anche se entrambi si sono da subito mostrati entusiasti della mia musica.

 

Mi piace poter riprendere adesso un tema che avevamo sfiorato all’inizio della nostra chiacchierata. Prima di incontrarti ho provato a cercare una definizione per la tua musica, ipotizzando una serie di risposte come ‘jazz’ (anche), ‘contemporanea’ (ma non solo), creativa (lo è tutta la musica) e mi sono fermato a ‘sincera’. Credo davvero sia questo il termine adatto ad indicare la tua musica che suona molto personale e autentica.

Non lo faccio apposta [ridiamo, ndr]. In realtà non so come definirmi, anche se probabilmente nella mia musica ci sono tutti gli ascolti che ho fatto, dal jazz alla classica ma anche il pop e il resto.

È possibile che la mia musica sia la sintesi di tutto quello con, in più, qualcosa che – come sostiene qualche pensatore – già esiste in un’altra dimensione e che captiamo e trasmettiamo cercando di essere canale. Il farsi canale, poi, all’atto dell’abbandono creativo sarebbe davvero la massima aspirazione, anche se tutti noi siamo davvero pieni di condizionamenti e sovrastrutture.

 

E veniamo alla conclusiva domanda di rito: cosa stai preparando di nuovo in questo periodo?

Innanzitutto mi piacerebbe suonare il più possibile con il quartetto di “Afternoons”, anche se ho già pronto il materiale per un quartetto d’archi che spero possa trovare presto una produzione discografica. Con Eloisa Manera al violino, Maria Vicentini alla viola e Salvatore Maiore – grande contrabbassista ma anche eccellente violoncellista – abbiamo già tenuto alcuni concerti, grazie all’Associazione 4’33” di Mantova che ha commissionato questo progetto per il quale ho scritto le musiche. So che è forse di difficile collocazione, ma mi piacerebbe tanto poterlo far conoscere.