Esponente della più fresca generazione dei pianisti nostrani, il torinese Emanuele Sartoris ha già messo a segno una personale discografia in veste individuale o di co-leader, ripartendosi tra una rivisitazione della formazione classica e un più franco investimento nella forma jazz, non mancando di partecipare anche a progetti discografici di fisionomia più ‘open’.

Insomma, con il Nostro è possibile per una volta orientare la conversazione muovendosi tra generi evidentemente non incompatibili, anzi comunicanti negli intendimenti del giovane pianista, che non equivoca sul doppio bagaglio formativo, classico-accademico da una parte, e devoluto alle forme di sintesi dall’altro. La conversazione muove anche dal commento al suo più recente, ambizioso e già celebrato lavoro discografico (“Totentanz: evocazioni lisztiane”, per Dodicilune) e, addentrandosi in un più generale approfondimento tecnico e storico, Emanuele Sartoris ha affrontato con noi una disamina pressoché estensiva tra eterogenee problematiche, proponendo una propria concezione di sintesi stilistica: insomma, il proprio “Stream”.

 

 

Emanuele Sartoris, classe 1986: per chi non lo conoscesse

Lo definirei un pianista e compositore dotato di fervida immaginazione.

 

Il pianoforte: storia e scienze applicate

Intendo la tecnica pianistica come il miglior elemento espressivo a disposizione di un improvvisatore. La tecnica è veicolo, non fine, un veicolo privilegiato che obbliga a confrontarsi quotidianamente con nuovi problemi da risolvere per la propria mano, solo così è possibile superare i limiti fisici che si presentano naturalmente in quanto esseri umani. La storia del pianoforte è legata a doppio filo alle innovazioni tecniche, che spesso sono state abbinate alla nascita di nuove correnti stilistiche, fin dall’intuizione del passaggio del pollice applicata da Johan Sebastian Bach, passando per le futuristiche ed esplosive sonorità beethoveniane e proseguendo con la tecnica romantica degli insuperabili Chopin e Liszt.

Nel mio percorso ho sempre curato con particolare dedizione l’aspetto tecnico, come ancora quotidianamente, e vedo nello studio dei meccanismi strumentali la possibilità di progressi inimmaginabili. trovo sterile ed inefficace l’idea che le combinazioni tecniche strumentali siano esaurite, più ci penso e più realizzo che tutto è in evoluzione e tutto cambia a patto che si abbia il desiderio di non accontentarsi della grandezza del passato. Io prediligo immaginare e credere nel futuro, poggiando la mia continua ricerca, il mio continuo studio sulle solide fondamenta delle scoperte del passato. Se si smette di cercare è finita, e vari esempi rendono ai miei occhi lampante come sicuramente la scrittura, spesso, sia figlia di ore di improvvisazione sullo strumento. Sono noti i commenti sulla potenza al pianoforte di Beethoven, ma cosa sarebbe oggi se Beethoven non avesse osato o non avesse ricercato una nuova potenza sonora tanto da guadagnarsi l’etichetta di “distruttore di pianoforti”? Per non parlare del cantato e degli infiniti gradienti di pianissimo dei quali Chopin si fregiava, a ragione, di avere un magistrale controllo. Anche gestire un “pianissimo”, controllare la cantabilità delle note sono aspetti tecnici, ben più difficoltosi da risolvere ed interiorizzare rispetto alla velocità sullo strumento. Ai miei occhi nulla è definitivo, e detto questo l’approccio ideale sarebbe generare buone idee e non mostrarsi al mondo come figli della sterile imitazione di chi è venuto prima di loro.

Come dialogano i differenti generi in arte e in musica?

Non ho mai apprezzato la divisione tra generi musicali, tuttavia è nella norma della natura umana trovare caratteristiche utili ad etichettare. Forse dico questo perché ho sempre percepito l’appartenere alla categoria dei jazzisti, rispetto ai musicisti classici, come se fosse considerato agli occhi del mondo qualcosa di meno. Converrebbe abbattere la barriera e proporre un’offerta diversa anche a livello formativo nelle accademie, essendo anacronistico a mio avviso che nel 2020 si continui a pensare di essere un pianista “classico” o “jazz”: l’unica cosa che si può pensare è di essere un buon o un pessimo pianista. Ad oggi i generi in ambito musicale spesso non dialogano, mentre è più semplice pensare ad un dialogo tra arti diverse: musica e pittura, musica e letteratura, tanto per citare degli esempi anche troppo sfruttati. I diversi generi dovrebbero guardare nella stessa direzione con l’obiettivo comune di superare se stessi. Le figure professionali di oggi che lavorano come pianisti spesso sono fuori da etichette, in particolar certi pianisti di grande successo, talvolta rubando a necessità da tutti i generi in cui percepiscono di poter trovare qualcosa di utile alla loro espressività: essere etichettati entro una categoria non conta quanto avere idee adatte a superare l’idea stessa di genere e stile.

 

Entro una etichetta eminentemente (ma non esclusivamente) votata al jazz sono stati proposti “I Nuovi Studi” (album d’ispirazione classica per cui sono stati scomodati Gunther Schuller e la corrente Third Stream): come sono stati preparati i materiali?

“I Nuovi Studi” sono figli di una ricerca tecnica e sonora che intraprendo con costanza quotidianamente per ore ancora oggi. Il mio desiderio è quello di essere consapevole il più possibile delle capacità espressive del mio strumento forzandomi di capire quali sono quelle che utilizzo meno, se ce ne siano di nuove che potrei intraprendere e se abbia senso e possa essere utile alla mia espressività qualsiasi nuovo ingegno tecnico scovato. La quotidianità e uno studio costante, come se recitassi un mantra, sono l’humus in cui fioriscono le piccole nuove scoperte a cui mi affeziono, spesso si tratta di cose utilizzate da tutti e che semplicemente io non sfruttavo, altre volte riscopro particolari sonori che appaiono meno battuti. Ogni nuova scoperta mi infiamma per trovarne un’altra, e rimango sempre molto colpito rispetto a quanto nella pratica quotidiana emergano aspetti o punti di vista nuovi, anche banali, ai quali semplicemente non avevo fatto caso perché il mio sguardo mirava in un’altra direzione. Il risultato innovativo per la mia tecnica è che questi studi prevedono come piano di lavoro l’improvvisazione, elemento di freschezza ed imprevedibilità che non era mai stato preso in considerazione fino ad adesso: grazie a questo aspetto ho trovato nella forma dello “Studio” il terreno adatto a creare qualcosa di innovativo e particolarmente utile al mio percorso. “I Nuovi Studi” non è solo un disco ma, ancora oggi, materia in continua evoluzione che mira più al futuro che al presente.

 

ll “pianoforte a quattro mani” ha già una tradizione sua. Posto che il partner non è mai un gemello, perché e come applicare ciò all’ultimo “Totentanz”?

In particolar modo in questo caso il partner non è un gemello: anzi, è l’opposto! Massimiliano Génot è, tout court, un pluripremiato pianista classico abituato ad essere impeccabile esecutore della lunga e granitica tradizione classica. L’opposto del mio essere jazzista improvvisatore. Tuttavia entrambi abbiamo una visione del nostro mondo aperta e, volendo, anche intollerante rispetto ad una serie di tradizioni che non apprezziamo ma che si sono cristallizzate nel tempo in entrabi i settori. Génot è stato presso il Conservatorio di Torino per anni mio insegnante di pianoforte classico, mi ha insegnato con enorme pazienza i segreti della tecnica classica portando la mia capacità espressiva e la solidità della mia mano molto oltre al livello che avevo in precedenza. A sua volta Massimiliano è sempre stato incuriosito dagli improvvisatori cimentandosi a sua volta con grande creatività nel jazz. Da questo incontro di ormai tanti anni fa è nato il nostro duo, uno scambio continuo in cui ognuno fa il massimo nel genere che rappresenta ma senza accontentarsi supera costantemente il confine, sia Massimiliano che il sottoscritto improvvisiamo di continuo, da soli e a quattro mani. Il Totentanz è il risultato di un anno e mezzo di lavoro settimanale in cui ci immaginavamo con il naso nella parte e le mani sul pianoforte dove poter improvvisare, spesso seguendo le tracce modernissime lasciateci dallo stesso Franz Liszt, spesso anche forzando la mano per rendere ancora più moderno quello che l’autore proponeva in embrione nell’originale. Il Totentanz, già quando Liszt stesso l’ha scritto rimaneggiandolo e variandolo più volte, era un’opera che poteva essere percepita come un qualcosa in continua evoluzione, noi abbiamo semplicemente dato voce a quello che ci sembrava emergere in maniera traboccante nella parte. Il risultato è uno scambio tra pianisti di differente provenienza che in maniera univoca mirano a scardinare quello che nella tradizione dei rispettivi settori non apprezzano. Il Totentanz sembra essere stato il giusto veicolo per poterlo fare.

Torniamo ad un nostro tormentone privato, sui “grandi classici popolarmente fraintesi”: condividi il concetto che la popolarizzazione può nuocere al corretto inquadramento e alla comprensione di grandi autori e modelli?

Storicamente molti aspetti della musica e del successo della stessa vanno legati alla popolarità e al favore che la massa le riserva. Il problema del “popolarmente frainteso” a mio avviso è legato alla scarsità di conoscenze ed esperienze di ascolto di cui il pubblico è affetto, ma applicherei questo concetto alla maggior parte delle arti, non solo la musica. Percepisco intorno a me una recessione culturale, il desiderio di conoscenza e di approfondimento non sembra adeguati, ma non voglio scagliarmi contro la conoscenza prêt-à-porter fruibile in internet perché la trovo spesso utile ed istantanea per potersi informare. Il successo di qualcosa di mediocre tra la massa è dovuto ad una scarsa educazione della stessa ma soprattutto allo spegnersi del desiderio di alzare la qualità di ciò di cui si fruisce in ambito culturale. Ci sono oggi autori inaccettabili che godono di grandissimo successo, ma dubito dell’autorevolezza di chi ne decreta la grandezza: sapere che Chopin è autore dei più celebri Notturni ma non degli impegnativi Studi, come non sapere che Bach è l’autore del Clavicembalo Ben Temperato è a mio avviso piuttosto grave. Il popolo può aver abbassato l’asticella culturale ma di certo, inteso come entità omogenea, non è stupido. Prima o poi le false attribuzioni o i fraintendimenti inizieranno a diventare fonte di vero imbarazzo e l’asticella salirà. In alcuni casi, come quello legato a Chopin, la gran parte delle persone si sono concentrate solo sulla punta dell’iceberg: i Notturni con frasi melodiche d’eccellenza e proposte armoniche innovative apparentemente semplici. Qui risiede parte della grandezza, anche educativa, di Chopin: saper far passare qualcosa di complesso innovativo e ricercato come apparentemente semplice. In parte questa è una soluzione, così come lo è stato per Bartók; l’utilizzo di danze popolari per attirare le orecchie delle persone ma nel contempo comunicare e sperimentare qualcosa di totalmente nuovo con un inarrivabile valore culturale. Sono comunque fiducioso nell’umanità, i tempi cambieranno ed anche il valore che si darà all’arte ma probabilmente sarà un cambiamento che noi non vedremo.

 

Forse qui entrano in gioco anche elementi psicologici o fattori cognitivi: potrebbero essere d’aiuto la didattica o i media?

Sicuramente, la didattica ed il modo di supportarla sono determinanti per accrescere le fila degli ascoltatori e renderli consapevoli. A mia volta sono un’insegnante di musica, ed è un ruolo che amo esattamente come stare sul palco. Purtroppo ho sperimentato sulla mia pelle pessimi ed ottimi docenti, questo mi ha permesso di rendermi responsabile di fronte agli allievi e determinare autonomamente l’importanza che ha il ruolo dell’insegnante, nel bene e nel male, sulla crescita delle generazioni future. Spingere alla curiosità nell’ascolto e al desiderio di rendere più consapevoli gli ascoltatori e pianisti sono gli obiettivi dei miei corsi. I media a loro volta sono importanti, le trasmissioni di approfondimento culturale in tv sono davvero poche, le riviste di settore stanno scarseggiando e faticano a rimanere aperte. Andrebbero incentivate trasmissioni non limitate al solo aspetto musicale, toccando tutte le arti e promulgando l’idea per cui la cultura non è un accessorio, ma l’unica via per vivere in maniera più consapevole la propria esistenza.

Pur partendo (anche) dal jazz, ne abbiamo parlato poco. Dunque …

Il Jazz è un principio, quello legato in particolar modo alla libertà di espressione. Nonostante la mia recente direzione ho registrato in passato dischi più mainstream e vicini al jazz tradizionale, come con la resident band di Nessun Dorma, i Night Dreamers. In questo caso le mie composizioni mirano al duplice obiettivo di rappresentare ciò che facciamo in Rai, che solitamente è più mainstream e televisivo, unendolo ad una scrittura più aperta. Il Jazz rimane un importante riferimento di studio, conosco bene gli standard, gli autori e la tradizione, ma cerco di non essere vittima dello stile di nessuno, pur idolatrando autori come Keith Jarrett e Bill Evans. Credo che la musica, per sua natura, debba prefissarsi l’obiettivo di guardare avanti e mirare necessariamente al nuovo ed al futuro. Cosa sarebbe del jazz odierno se Charlie Parker avesse scelto di suonare esclusivamente in maniera tradizionale imitando Coleman Hawkins, o se Bill Evans avesse scelto di proseguire la strada (già avveniristica) introdotta da Bud Powell? Il jazz sta nelle idee e nella libertà dettata dall’improvvisazione, tutto il jazz che è venuto prima va studiato e conosciuto perché sia la spinta giusta verso il futuro: in parole povere Il jazz resta il riferimento cardine di tutto ciò che faccio.

 

Hai partecipato alla formula (piuttosto basilare) del piano trio jazz, o con quali intenti o contributi vorresti praticarla?

Ad oggi non ho un progetto con il classico piano trio formato da contrabbasso e batteria, devo ammettere che percepisco ciò come il mio habitat naturale ed è forse il contesto in cui mi muovo meglio: penso sia proprio questo il motivo per cui non ho un trio. In questo momento trovo più interessante esplorare il suono in formazioni piccole o di natura differente come il trio con Massimo Barbiero ed Eloisa Manera. Se poi penso al duo con il contrabbassista Marco Bellafiore, la presenza di un batterista risulterebbe addirittura superflua. Senza batteria abbiamo una capacità esecutiva più ampia e mano tradizionale, c’è modo di ascoltarsi e mantenere un sincero interplay senza preoccuparsi di altri al di fuori di noi due. Non escludiamo di accogliere un batterista nel nostro duo, ma è talmente intimo un tale risultato che probabilmente passerà ancora del tempo prima di diventare un trio o forse non accadrà mai: è anche vero che accoglierei una batteria che sovverta ruoli e gerarchie per sperimentare qualcosa di differente, vorrei che fosse una situazione libera profonda ed intima, pur sapendo sfruttare i canonici ruoli se si scegliesse di farlo.

 

Inevitabile un discorso sulla fusion; prendendo a prestito uno dei tuoi titoli e tornando al citato Third Stream, quale sarebbe una tua ricetta – insomma: il tuo nuovo Stream?

In realtà non ho una ricetta, ciò che conta per me in questo tipo di operazioni è evitare il “jazzetto” alla Jacques Loussier o simile a certi esperimenti di Dave Brubeck, ho letteralmente il terrore di poter essere accostato idealmente a tentativi così. Non vorrei essere frainteso, per l’epoca erano di certo innovativi e a loro volta sperimentavano mischiando dichiaratamente la ritmica stereotipata del jazz alle forme della musica classica, spesso prendevano solo i temi e poi usavano altre forme per improvvisare, ma non ho mai trovato profondità in questi progetti, non mi hanno mai fatto emozionare.

Nel lavoro con Génot e prima nei “I Nuovi Studi” la forma rimane elemento centrale del progetto. Per evitare che queste operazioni sulle partiture classiche possano risultare pacchiane e senza alcuna profondità, trovo determinante rispettare la parte originale ampliando le zone in cui si percepisce che l’autore avrebbe volentieri improvvisato, non solo le cadenze, ma laddove viene proposta più volte una variazione con la stessa griglia armonica, come se già si trattasse di uno standard. Lo stile improvvisativo applicato può essere storico immaginando come l’autore  avrebbe suonato liberamente, e questo risultato è frutto di un’analisi attenta degli scritti e degli stili degli autori presi in considerazione, oppure può contenere la modernità dei sistemi improvvisativi adottati oggi.

In realtà credo che potrò dare una ricetta accettabile, se l’avrò trovata, sul finire della mia vita.

Si può anche intendere il disco come “biglietto da visita” o estensione dell’esperienza concertistica: c’è dell’altro? (anche considerato il mercato odierno).

Vivo il disco come una fotografia dello stato e della situazione artistica in cui mi trovo in un determinato momento storico, e cerco sempre di far sì che si tratti più che di un biglietto da visita della rappresentazione e cristallizzazione delle nuove idee che ho portato a segno nel mio pensiero, per questo quando ne realizzo uno sto già pensando a cosa verrà dopo, proprio perché si tratta di un tassello che mi permette di poter fotografare lo stato attuale delle cose per poter prevedere il futuro. Chiaramente spesso rappresenta l’attività concertistica, in qualche modo ne fa parte e ne è la quintessenza. Ad oggi fare dischi è molto complesso, e val la pena recarsi in studio solo se si è consapevoli di ciò che si sta facendo. Il mercato odierno ha visto calare drasticamente le vendite dei dischi, e realizzarne per vendere, valutando che non considero questo successo come un obiettivo, sarebbe un punto di partenza sbagliato. Io faccio un disco se ho la presunzione di avere qualcosa da dire, altrimenti taccio. Forse poi il disco diventa un biglietto da visita per come viene valutato all’esterno, per esempio dalla critica, ma appunto non sta a me parlarne.

 

Valore dei Social e investimento sui medesimi.

Ad oggi utilizzo Facebook esclusivamente per fini lavorativi, idem con Instagram. Non sono un grande cultore dei social, anzi, tuttavia mi rendo conto che non utilizzarli sarebbe anacronistico e perfino stupido. Non vorrei esser frainteso, anche io sono vittima della vanità di pubblicare qualcosa che mi rappresenti, dando spesso un contentino al mio ego, ma mi rendo conto che i social hanno anche il limite di essere la vetrina di tutto e di tutti, questo spesso infila tutti nello stesso calderone, professionisti e non. Non ci investo se non del tempo ma capisco l’importanza che hanno e mi affilio per far sì che mi siano utili per l’attività che svolgo.

 

Nord-ovest, Piemonte, Torino in musica: incontri, e rituali.

Torino è una città effervescente dal punto di vista musicale, in particolar modo per quanto riguarda il jazz. Sono moltissimi i locali e le rassegne che si occupano di improvvisatori, questo aiuta lo sviluppo di una realtà locale di artisti in continua crescita, in settimana sono moltissime le serate dedicate e da questo punto di vista è una fortuna viverci perché ogni qualvolta si porta a segno un nuovo progetto non mancano le occasioni, anche prestigiose, di poterlo presentare e poterci lavorare. I musicisti e colleghi che frequento io non sono strettamente legati alla città di Torino, per esempio Ivrea è un centro molto vivo dal punto di vista artistico e con organizzatori di festival, nella fattispecie anche musicisti riconosciuti a livello internazionale, con cui collaboro con entusiasmo e che sono la giusta spinta creativa e culturale per questi territori. Insomma, non posso lamentarmi.

 

Cronache dalla pandemia.

La pandemia è stata chiaramente segnante, un momento storico unico al quale avrei, come tutti, fatto a meno di assistere, tuttavia non si può decidere quale evento stravolgerà le esistenze e non si può stabilire di evitarlo, per questo si accetta e si va avanti. Sono abituato ad uno stile di vita molto fitto ed organizzato tra studio, lezioni e concerti, veder venire a meno tutto di colpo è stato chiaramente, come per tutti, traumatico. Non ho perso tempo, appena ho compreso che si sarebbe rimasti chiusi in casa ho provveduto ad ordinare spartiti che non avevo mai approfondito e mi sono dedicato ad un intenso studio quotidiano a testa bassa senza pensare ad altro. Il periodo è stato utile alla progettazione delle attività future, e rimanere sul pezzo mi ha permesso di ripartire senza traumi da dove avevo lasciato, quando possibile. Prima, durante e dopo il lockdown sono per altro usciti molti dischi che mi hanno visto co-protagonista o ospite, come “Woland” con Massimo Barbiero ed Eloisa Manera o il recente “Totentanz” a quattro mani con il precedentemente citato Massimiliano Génot, questo mi ha tenuto costantemente in attivo obbligandomi a non perdere i contatti con il lavoro quotidiano. Sono chiaramente saltati molti concerti ed è stato naturalmente, come per tutti, destabilizzante e la normalità ritrovata nei precedenti mesi mi ha portato entusiasmo, nonostante la complessità dei nuovi ritmi che è necessario reggere per non perdere il controllo del susseguirsi degli eventi.

 

Una risposta (o un aforisma) a piacere.

“L’avvenire risiede nelle idee”.

 

Credits:
Valerio Averono Ph

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Emanuele Sartoris