L’incontro con un talentuoso pianista di natali sardi e naturalizzato belga (ma di vocazione apolide, come riscontreremo), già accuratamente attenzionato a partire da un album di cui capitanava la stellare line-up (“No Comment” per Jazzwerkstatt) e del quale abbiamo seguito differenziate proposte pervenendo al nuovissimo album in settetto “The Monkey and the Monk”, che prendiamo insieme a svariati argomenti a soggetto di una franca conversazione.

 

Augusto Pirodda… in poche parole, per chi non lo conoscesse.
Credo di essere quella che si potrebbe definire una bella persona, anche se devo ammettere che sono più le persone vicine a me a dirmelo che io stesso a notarlo. Indubbiamente cerco costantemente di conoscermi ed accettarmi, e credo che questa sia una cosa buona. La musica è un mezzo per farlo.

Il pianoforte: storia, geografie…

Il primo insegnante di piano è stato mio padre. Da quando avevo tre anni mi arrampicavo sul pianoforte per cercare di suonare la musica che suonava lui, musica pop italiana anni ‘60.

Ho iniziato a prendere lezioni all’età di 6 anni ma per lo più ho sempre imparato la musica che volevo suonare dai dischi, con le possibilità tecniche che avevo al momento. A 18 anni ho seguito per 2 anni il corso di composizione sperimentale al Conservatorio di Cagliari ed in quegli anni si è mostrata sempre più evidente la mia predilezione per l’improvvisazione. In quegli anni ho iniziato a suonare con Manolo Cabras (grande bassista e fratello con il quale suono ancora oggi), ed altri musicisti della scena musicale del periodo. Sono stato ai primi seminari di Nuoro organizzati da Paolo Fresu e da lì ho cominciato ad entrare in contatto con una scena musicale più grande. Ho avuto l’opportunità di conoscere ed in certi casi collaborare con musicisti importanti nel panorama del Jazz Italiano ed Internazionale quali appunto Paolo Fresu, Roberto Cipelli, Franco D’Andrea, Tino Tracanna, David Liebman, John Taylor e molti altri ancora.

Nel 1998, a 26 anni, sono andato a studiare al “Koninklijk Conservatorium” all’Aja. Da lì la visione si è ancora più allargata. È stato molto educativo scoprire una realtà musicale decisamente più ricca rispetto a quella alla quale ero abituato io.

Circa 10 anni dopo, a parte una breve pausa a Milano, mi sono trasferito a Bruxelles. Qui riesco ad avere sia l’opportunità di lavorare che di trovare il tempo necessario da dedicare alla mia musica.

…scienze applicate.

Guardando indietro mi rendo conto che ho sempre fatto bene o male la stessa cosa, solo che adesso lo faccio con coscienza. Cerco solamente di dire la verità, di mostrarmi senza filtri.

L’estetica musicale che ne risulta è irrilevante. Mi spiego: osservando quello che faccio posso dire che mi piace molto il Jazz e la mia estetica si basa fortemente su di esso. Ma il risultato finale è inevitabilmente un mix delle cose che conosco, essendo necessariamente espressione di me stesso.

Da un punto di vista stilistico per esempio, vedo che prediligo suonare melodie con entrambe le mani piuttosto che rimanere nella consueta, jazzistica divisione pianistica mano sinistra = accordi, mano destra =  melodia. A volte suono parecchio pensando in termini di ‘block chords’, che in realtà non sono niente altro che una maniera di colorare una melodia. Credo di aver posizionato l’armonia nell’ambito delle strutture sulle quali mi esprimo e che non ho il bisogno di esplicitare nelle mie melodie.

A riguardo mi piace molto una frase di Paul Bley: “Non permetto mai all’armonia di interferire con le mie melodie”.

Anche dal punto di vista del repertorio, continuo a fare oggi quello che ho sempre fatto.

Scrivo e suono la mia musica ma mi piace sempre suonare gli standards. Non fa una grande differenza, lo scopo rimane sempre lo stesso: esprimere nel modo più onesto possibile la musica che sento nel momento in cui la sento.

Quando riesco a farlo, mi sento libero. E nella musica si sente.

L’importanza, oggi, dell’espressione discografica.

Non so bene cosa rispondere a questa domanda, ma per quanto mi riguarda, faccio dischi perché trovo della qualità nel farli. Già da parecchi anni ho capito che c’è da una parte il lavoro che faccio per pagare le cose, dall’altra c’è la mia musica.

Secondo la visione di questa società, la mia musica si potrebbe definire il mio hobby.

Ogni mio disco rappresenta indubbiamente me stesso nel momento in cui l’ho fatto.

Vendere i dischi che faccio è più o meno irrilevante e comunque sicuramente non è la ragione per la quale li faccio.

Nella Tua discografia non ci è sfuggito un momento miliare. Quel “No Comment”, pubblicato per JazzWerkStatt nel 2011, in compagnia di una siderale sezione ritmica, tali Paul Motian e Gary Peacock: ovviamente vorremmo rivivere con te quella session.

Che dire? “No Comment” è la prova che anche i sogni si possono realizzare, e a volte è solo questione di racimolare qualche soldo.

Sdraiato sul divano ascoltavo “Tethered Moon”, il trio che Peacock e Motian avevano con Masabumi Kikuchi, e all’improvviso ho pensato: “Ma è veramente impossibile che un nessuno come me per una volta nella vita abbia la possibilità di suonare con queste due bestie? Vediamo…”.

Beh, non era impossibile evidentemente.

Devo ammettere che è difficile per me parlare di quei giorni a New York senza dilungarmi. È stato come vivere nel paese delle meraviglie per due settimane, e poi tornare alla realtà. Bellissimo. Arrivare in studio e trovare Paul Motian che sta accordando la batteria, si presenta, ti chiede di suonargli i pezzi perché non vuole avere partiture, e mentre ascolta ti dice “magari qui potrei usare le spazzole, cosa ne pensi?” e tu mentre rispondi “…sì…” stai pensando “ma… chiedi a me cosa devi usare? Ma, non ti hanno informato che sei Paul Motian?”
Arriva Peacock vestito con la tuta da ginnastica e cominciano a scherzare fra di loro, evidentemente non si vedevano da un po’. Mi sembrava di stare in una sit-com americana. Mi hanno raccontato aneddoti di quando suonavano insieme con Bill Evans, che una volta era talmente fatto che non riusciva a muovere la mano destra ed ha dovuto fare tutto un concerto usando solo la sinistra, e nessuno se n’è accorto.

Sono stato ospite di Paul Motian al Birdland, dove l’ho visto per tre volte suonare con Hank Jones, Joe Lovano e George Mraz, una volta al Village Vanguard, in cui mi prendeva a braccetto e mi portava in giro mostrandomi vecchie foto e dicendomi: “Ecco, qui sono con Bill, qui sono con Scott…”.

Mi ripeto, Pirodda nel paese delle meraviglie.

La cosa bella è che non mi sono mai sentito AL COSPETTO di PEACOCK e MOTIAN. Si sono sempre comportati in modo estremamente umile e hanno fatto ciò che mi aspettavo da loro.

Hanno suonato la loro musica nella mia. C’ero io, ma poteva anche esserci Paul Bley o Keith Jarrett.

Per loro non faceva differenza. Un’esperienza meravigliosa che non dimenticherò mai.

Perveniamo al più recente album, molto diverso, e il cui titolo “The Monkey and the Monk” già ci fornisce indizi e provocazioni.

“The Monkey and The Monk” è il lavoro più coscientemente personale che abbia mai fatto.

Parlo della mia personale battaglia per la conquista’ della libertà, la mia libertà mentale.

L’occasione di riuscire ad arrivare prima o poi alla conquista del momento presente, all’accettazione totale della realtà e sopratutto della mia persona. Il mio è comunque un messaggio di speranza.

Ci vuole tempo ma ce la si può fare.

Credo che sia più importante dire questo piuttosto che dilungarmi sulla complessità tecnica sia a livello strutturale che compositivo che di orchestrazione che caratterizza questo “Concerto in tre movimenti” per scrivere il quale ho potuto contare su un universo di opzioni timbriche, vista la ricchezza di strumenti che avevo a disposizione.

Una cosa che posso dire è che, dopo un po’ che ci lavoravo, mi sono reso conto che stavo in qualche modo cercando di riprodurre il mio approccio nel piano solo in un ensemble più grande.

Ovvero la possibilità di giocare anche con le strutture e non solo con le armonie ed il tempo.

Ma farlo da solo è semplice. Per farlo con altri musicisti bisogna scrivere, ed è ciò che ho fatto.

Solo dopo un po’ mi sono accorto che stavo scrivendo una sorta di Concerto in più movimenti.

In effetti è già tutto un programma la copertina “a sorpresa”

Si, la copertina ha una doppia veste grafica, con un astuccio plastificato.

È una piccola sorpresa, ed ha anche un certo significato. Vuole essere un messaggio positivo di speranza.

Vedi la testa con tutto quel casino dentro, tiri fuori il disco ed il casino scompare, ed appare un fiore.

A volte basta un semplice gesto come un respiro, o togliere un disco dalla sua bustina, per fermare il flusso di pensieri. E una volta che riesci a farlo scopri che hai dentro la bellezza di un fiore.

Insomma, non sei così brutto come pensi: è questo il significato della copertina.

Il disco ci permette inoltre di parlare almeno in parte della tua terra d’adozione e del milieu di talenti con cui collabori e che hai potuto osservare.

Spenderei intanto due parole sui musicisti che fanno parte del mio settetto.

Lynn Cassiers, Laurent Blondiau, Riccardo Luppi (nel disco Ben Sluijs), Sam Comerford, Manolo Cabras e Marek Patrman. Grandi musicisti capaci di essere leader e gregari, che hanno arricchito notevolmente la mia musica capendone e rispettandone a pieno l’intenzione. Sono onorato di averli nel mio ensemble.

Per quanto riguarda la mia terra d’adozione, il Belgio, non ci sono veramente venuto. Piuttosto ci sono capitato.

Prima ero in fuga dalla Sardegna, poi andavo via dall’Olanda. Il Belgio in quel momento era l’opzione migliore e da allora non ho avuto nessuna ragione per andarmene, a parte la voglia di andare a vivere nella casa che ho in campagna in Sardegna, ma per il momento la vedo dura.

La scena musicale qui è estremamente variegata. C’è di tutto e il contrario di tutto. E non c’è il mare intorno! C’e’ sempre qualche cosa che succede. Vivere a Bruxelles presenta i suoi vantaggi.

Ci sono tanti musicisti che vengono da ogni parte del mondo. Diversi universi che possono coesistere.

Torniamo alla tua Sardegna: vissuta, da ricordare, narrata, trasfigurata …

Dalla Sardegna sono scappato due volte. La prima nel 1998 per andare a studiare all’Aja, la seconda nel 2005 per lasciare definitivamente quell’isola per me orrenda e tutto ciò che aveva a che fare con la scena musicale.

La odiavo profondamente ed ho imparato ad amarla pian piano negli anni successivi alla mia seconda fuga, quando ho cominciato a viverla solo come posto per le vacanze.

Ho alla fine capito una cosa importante: l’America non esiste. O per lo meno: se esiste, esiste in testa.

Ogni posto ha i suoi plus e minus. A dire la verità, avendone la possibilità, tornerei in Sardegna anche oggi stesso. Ho una casa in campagna dove andrei volentieri a vivere (ma a Cagliari assolutamente no).

Penso che potrei anche guadagnarmi da vivere non suonando il piano ma magari occupandomi di ristorazione, o cucina in genere, che per me è un’altra grande passione.

Suono il pianoforte, è vero, ma non devo fare il pianista per forza.

I ‘colori’ e i ‘motivi’ preferiti: in arte, in vita …

Ti posso dire che ciò che mi piace in arte e nella vita è la stessa cosa: Onestà.

Mi piace trovare ogni giorno un po’ più di coraggio per mostrare me stesso senza giudizi, o nonostante i giudizi, e vorrei avere intorno a me persone che fanno la stessa cosa.

In genere mi piace la musica, o qualunque forma d’arte in genere, che viene da persone che fanno questo stesso tentativo. Si sente subito se qualcuno sta scegliendo di mostrarsi o sta cercando di accontentare l’ascoltatore. Sono decisamente per la prima opzione, sia dal punto di vista dell’artista che dell’ascoltatore. Quando si sceglie di accontentare l’ascoltatore si passa dall’arte all’intrattenimento. Niente di male, per carità, ma per me sono due cose diverse.

Un artista è una cosa, un intrattenitore è un’altra cosa. Io sono più interessato a vedere e conoscere chi sta davanti a me, piuttosto che chiedergli di fare qualche cosa che mi piace e che mi intrattenga.

Qual è il bilancio del ‘mestiere’ dell’Artista?

Non nego che da un punto di vista economico è disastroso. Ho ormai accettato che la mia arte non mi darà da vivere, ma va bene così: grazie alla musica, imparo a conoscermi e ad accettarmi.

Per me, i meccanismi che regolano le mie ansie e paure quando suono il piano, sono uguali a quelli che regolano la mia vita in genere. La musica è la vita, solo in una scala più piccola, e quindi un po’ più semplice da controllare.

Cosa c’è dietro l’angolo?

Spero resa incondizionata ed accettazione. Non desidero altro.

Tutto ciò che deriverà da questo andrà bene, ‘no matter what’.

Volendo essere un po’ più concreto: credo sia arrivato il momento di fare un altro disco in piano solo, ed ho in mente un paio di altre cose (un quintetto, una serie di incontri per fare musica improvvisata con diversi musicisti, un doppio quintetto, insomma …varie cose) anche se per il momento vorrei provare a dedicare un po’ di tempo a fare fruttare “The Monkey and The Monk”. Mi piacerebbe portarlo un po’ in giro nei prossimi due anni.

La vedo dura però. Qualunque aiuto e/o suggerimento a riguardo sarà ben accetto 🙂

Un aforisma a piacere …

… “Carpe Diem” va bene?

…chi si accontenta…

Alla prossima.

 

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Augusto Pirodda