Il titolo non vada frainteso, non solo nel senso che chi scrive non ne è particolarmente fautore, quanto piuttosto che il concetto della migrazione, così spinoso nell’attualità ma non certo recente, può anche esser un’opzione di scelta, oltre ad ammissibili stati di necessità.

Intendiamo qui ripercorrere il profilo e l’avventura artistica del talentuoso tastierista pugliese Alessandro Sgobbio, poliedrico testimonial della possibilità di spendersi su piazze differenziate valorizzando il locale pabulum e pervenendo ad esiti professionali ed artistici ulteriori. Ciò dunque puntando su latitudini più «nordiche» intese, fuor di banalità e/o discriminazione come «altre», non trascurando comunque quanto correntemente esplicitato anche sul suolo (e sui palcoscenici) d’origine. Di tutto il percorso finora esperito conversiamo dunque con il Nostro, potendovi approfondire anche qualche spunto più tecnico e d’implicazione generale.

 

 

Alessandro Sgobbio: in poche parole per chi non lo conoscesse

Musicista. Mi occupo di comporre, suonare e produrre musica, in solo e diverse formazioni.

 

Il pianoforte: storia, geografie, scienze applicate

Tutto è cominciato durante una cena a base di cibo pugliese, interrotta dai servizi culturali del telegiornale della sera: avevo all’incirca cinque anni ed ero a tavola con la mia famiglia. I miei genitori, vedendomi (troppo) spesso girare per casa percuotendo utensili vari (leggasi: disturbando il vicinato), avevano deciso di iscrivermi a un corso di musica della biblioteca comunale del paese e mi avevano chiesto quale strumento preferissi studiare. Ora, in casa abbiamo sempre avuto vinili, musicassette, bassi elettrici e chitarre classiche a disposizione (mio padre Stefano si diletta tuttora al basso ed è un ottimo conoscitore del repertorio rock), ma all’epoca non avevamo (ancora) un pianoforte. Galeotto fu un servizio televisivo dedicato a un pianista classico (di cui ovviamente non ricordo il nome): la bellezza e l’eleganza emanate da questo strumento nero lucido mi incuriosivano, e in qualche modo mi sembravano “familiari”. Intuizione visionaria o naïveté d’infanzia? …direi che, con il senno di poi, mi è andata benissimo così…

Primi passi musicali in Puglia (mia terra d’origine), studi accademici a Parma (Conservatorio “Arrigo Boito”) e Oslo (Norges Musikkhøgskole); a latere, esperienze formative ai Siena Jazz e Umbria Jazz Clinics, masterclasses con Misha Alperin, John Taylor, Bruno Tommaso e molti altri. Scienze applicate in Italia, Francia e Norvegia, in qualità di musicista, compositore, produttore e didatta.

L’approccio tecnico allo strumento è – credo – personale e “autobiografico”, e vi trovano spazio risonanze della mia formazione musicale (classica e jazz), strascichi giovanili di rock progressivo, studi umanistici, letture e repertori più prettamente “spirituali” in ambienti ecclesiastici e corali.

Alcuni tuoi “luoghi di migrazione in arte” – tali la Scandinavia o Parigi – sono popolari certamente, ma non poi così scontati: le tue personali impressioni

La “migrazione in arte” è stimolante e (positivamente) destabilizzante.

Il suono e il ritmo di città cosmopolite quali Parigi, Oslo, ma anche di una specifica città italiana, possono influenzare profondamente la maniera di suonare, o pensare a determinate funzioni e forme della musica. Credo che una frequentazione (puntuale o prolungata) di diversi ecosistemi sonori e sociali (realtà accademiche, teatri, club e altri luoghi di produzione, insomma la comunità musicale attiva in quel determinato territorio) sia senza dubbio l’occasione per mettersi in gioco e sperimentare nuovi approcci e percezioni della pratica musicale – e tanto meglio se tali esperienze hanno luogo durante gli anni della formazione giovanile. Rovescio della medaglia, per poter accedere a tale privilegio, potrebbe rivelarsi necessario un tempo tecnico di “adattamento” culturale (e spesso alimentare e climatico!).

 

Vorremmo riprendere l’esperienza Pericopes?

Pericopes nasce all’interno del Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma, dove, assieme al collega e amico sassofonista Emiliano Vernizzi, abbiamo conseguito il nostro Master in Jazz sotto la guida del compositore e contrabbassista Roberto Bonati. Contestualmente all’uscita dei nostri primi dischi in duo, abbiamo ricevuto i Premi Umbria Jazz Contest e Padova Carrarese, due riconoscimenti importanti che ci hanno dato motivazione e energia per elaborare un progetto parallelo in trio (Pericopes+1) con la partecipazione del batterista Nick Wight (sostituto, nelle nostre più recenti tournée post-pandemiche, dall’altrettanto talentoso Ruben Bellavia). Con questa nuova configurazione abbiamo effettuato diverse tournée in Europa, Stati Uniti e Cina, suggellate da sette pubblicazioni discografiche, tra cui il recente “UP” (Losen Records). Insomma, tanta strada e tante belle esperienze.


Naturalmente andrei anche a Silent Fires, realtà composita e promettente (anche considerando le individualità dei talenti partecipanti).

Certo. Silent Fires è un progetto relativamente più recente, in quanto nasce nel 2016 durante i miei studi presso la Norges Musikkhøgskole di Oslo. Vede la partecipazione delle artiste norvegesi Hilde Marie Holsen (tromba, elettronica), Karoline Wallace (voce), del violinista Håkon Aase e Synne Garvik (danza). Dopo i nostri primi esordi in terre nordiche, ci siamo successivamente esibiti in Francia, Germania, Portogallo e anche nella nostra Italia, dove abbiamo registrato il nostro primo album “Forests” presso lo Studio Artesuono di Stefano Amerio (edito dall’etichetta norvegese AMP Music & Records). Suoniamo composizioni originali sotto forma di brevi preghiere spirituali contemporanee. Mi piace molto il dialogo che riusciamo a instaurare tra voce, testi spirituali, sonorità strumentali acustiche-elettroniche e coreografie istantanee. Ogni sera il risultato è sempre diverso e sorprendente. La stesura del repertorio ha beneficiato delle lezioni e conversazioni avvenute con il compositore e pianista Misha Alperin, delle quali mi ritengo tuttora immensamente grato e onorato.

 

Ci parli del tuo ultimo disco “Transparence”?                    

Si tratta del mio secondo lavoro in terre “nordiche’. Il quartetto – al secolo il chitarrista islandese Hilmar Jensson, i norvegesi Jo Berger Myhre (basso) e Øyvind Skarbø (batteria) e il sottoscritto al pianoforte – prende il nome da una delle più grandi isole della Norvegia (Hitra), composta a sua volta da una miriade di altri isolotti e scogli.

Il disco – registrato a Oslo in una nevosa giornata dell’autunno 2017, e successivamente mixato da Stefano Amerio a Cavalicco (UD) – si ispira a luoghi immaginari, spirituali, perduti o mai esistiti, come la città di “Lebtit” narrata da Georges Perec o la recentemente demolita “Cité Des Poètes” della banlieue di Parigi. Per gli appassionati del suono vintage autentico, ne esiste anche una versione in vinile, disponibile su Bandcamp.

Un bilancio delle esperienze più strettamente ‘made in Italy’

Bilancio … direi tutto sommato positivo! Ci sono moltissime realtà di rilievo, e vedo con piacere il nascere e lo sviluppo di diverse associazioni che si pongono l’oneroso ma lodevole obiettivo di federare le varie realtà attive sul nostro territorio – un po’ alla stregua di quello che si fa già da diverso tempo in Francia e altri paesi del Nord dell’Europa.

Dal punto di vista artistico, è notevole l’altissima qualità di gruppi e artiste/i presenti in Italia (penso soprattutto alle nuovissime generazioni). Il mio auspicio è che i cartelloni di festival (grandi e piccoli) possano accogliere in misura sempre maggiore queste nuove proposte.

 

L’intera avventura musicale (ad oggi) dal punto di vista della tastiera

È stata una lunga avventura…e oggi più che mai ci sono possibilità pressoché infinite, grazie alla tecnologia, per poter espandere le sonorità dello strumento in mille altre direzioni timbriche. Ultimamente ho cominciato a integrare strumenti elettronici al suono del pianoforte acustico, e questo mi ha permesso di ampliare la palette espressiva in direzioni nuove e stimolanti. Ma (forse) quello che oggi più mi interessa, da pianista, è trovare (e ritrovare) una sorta di dialogo autentico e spirituale con lo strumento stesso, nel momento preciso di una prova o concerto, o durante lo studio solitario tra le mura domestiche.

 

Un tuo concetto di ‘avant-garde’

È un concetto vasto e suscettibile di connotazioni e opinioni differenti, anche a seconda del periodo storico e/o della comunità musicale alla quale viene associato. Chissà se sia ancora cosa buona e giusta utilizzare queste terminologie in una realtà liquida e trans-geografica come quella odierna? Personalmente, propenderei arbitrariamente per la nozione più neutra di “ricerca” o “ricerca interiore” – frutto di una più ampia riflessione personale rispetto all’unicità e il senso ultimo della propria ricerca intellettuale e spirituale.

 

Il lockdown ha davvero modificato motivazioni e traiettorie?

Le risposte all’incertezza di questo periodo inedito sono state estremamente variegate, e ogni artista ha dovuto (ri)organizzare il proprio percorso creativo, usufruendo di spazi spesso inconsueti. Una parte della comunità ha reagito scrivendo e producendo molta musica o documentazione audiovisiva (solitariamente o collettivamente), un’altra fetta della comunità ha preferito trovare rifugio in una silenziosa e meditativa attesa. Trovo queste traiettorie tutte ugualmente “corrette” e necessarie.

A corredo del testo inseriamo un tuo video live individuale, che d’accordo con te consideriamo “paradigmatico” (ma non esaustivo) della tua arte improvvisativa; si scomoda nel titolo il mondo di J.S. Bach e non si ignora il dettato classicista, peraltro appare sintonizzato sulle più nuove formule dell’improvvisazione, con tangibile partecipazione fisica e coinvolgimento del “corpo meccanico” dello strumento

Mi ha sempre affascinato poter sfruttare il pianoforte nella sua interezza timbrica e spaziale, e interagire con esso in maniera più diretta o – mi si passi il termine – “primordiale”. In età adolescenziale avrò forse visto (troppi) video del tastierista Keith Emerson intento a saltare su Hammond e sintetizzatori vari, ma credo di aver tratto ispirazione soprattutto dai ripetuti ascolti della musica (e relativa fisicità) del pianista Cecil Taylor, come anche dalle numerose discussioni sul tema con il mio maestro e mentore Misha Alperin. Alperin mi esortava spesso a interagire con lo strumento restando in piedi, o ad esempio utilizzando (per ore!) una sola mano o una specifica parte della tastiera, in modo che potessi esercitarmi a raggiungere ogni volta, pur con elementi diversi, un risultato qualitativamente in equilibrio tra coerenza strutturale e drammaturgia musicale. Insomma, è necessario saper mantenere un livello di concentrazione importante per riuscire a gestire i numerosi parametri da “addetti ai lavori” di cui sopra, senza che questi interferiscano con l’energia irripetibile dell’atto creativo e l’istinto emozionale che lo sottintende (e qui mi viene in mente l’espressione “il velo dell’ordine” coniata dal pianista Alfred Brendel). Il tutto andrebbe poi armonizzato con le contingenze dello spazio acustico, della cornice temporale scelta (meno di due minuti, nel caso di questo video di taglio “televisivo”) e di eventuali reminiscenze storico-rituali emanate dagli elementi musicali in gioco: penso qui al bellissimo e celebre Kirchenlied luterano che ispira questa improvvisazione, al quale sono legato affettivamente e biograficamente. Il tema meriterebbe certamente spazi di riflessione più ampi … difficile condensare tutto in queste poche righe. Negli anni ho appreso (e mi sono divertito) a provare elementi gestuali pianistici alternativi, molti dei quali (trascorsi i necessari periodi di dosaggio e taratura) sono oggi parte integrante del mio vocabolario improvvisativo e compositivo.

 

Cosa c’è dietro l’angolo ?

Vedo (e ascolto) nuove storie e nuove strade che si dipanano attraverso questi tempi e queste attese estremamente particolari, dove è saggio sapersi immergere sempre più in profondità nel flusso della vita; porsi domande e carpire obiettivi; dedicare più spazio e più tempo alle persone a noi care; gioire di quello che si ha, e di ciò che si ottiene con volontà e sacrifici. Vedo (e ascolto) questo periodo un po’ strano, come un’occasione per riflettere (traendone il meglio possibile) sul nostro cammino, pur restando fedeli al nostro intimo percorso umano. E – ovviamente – vedo (e ascolto) nuovi suoni, nuova musica, nuove sinergie artistiche, che attendo con trepidazione di condividere con il pubblico nell’imminente futuro.

…al futuro, dunque !

 

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Alessandro Sgobbio