ADRIANO TARULLO | Un disco che sa di storia e di radici

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Si intitola “Storie di presunta normalità” questo nuovo lavoro d’autore firmato da Adriano Tarullo. Nell’intervista che segue ho avvertito quel rigore e quel bisogno di “difesa” verso una certa bellezza, una certa cultura… ed io mi accodo a lui nell’intento di restituire il significato di tante cose andate perdute in questo eterno commercio che è divenuta l’arte oggi. Il cantautore Adriano Tarullo attinge a piene mani dalla didattica classica, dal blues soprattutto, per confezionare una canzone leggera tutta italiana che invece di puntare sull’estatica conforme all’industria, punta sul messaggio, sul contenuto…e per lui che è autore e musicista, il contenuto è anche musicale, di forma e di arrangiamento. Insomma un disco maturo sicuramente, che pretende l’ascolto dedicato, quello sincero, quello onesto. In rete il bellissimo video di lancio del singolo “Cenere di stelle”: una clip disegnata a mano da Francesco Colafella e realizzata in video dal Collettivo Lhumans.

 

 

 

C’è una cosa che mi ha colpito subito. Sei uno che cerca molto la rima… anche in modo “forzato” delle volte. Come mai questa scelta stilistica?

La rima facilita la bellezza del suono delle parole. È un elemento caratteristico nelle composizioni di molti cantautori, anche i più affermati. Marinella era semplicemente bella. È anche uno stimolo al completamento del verso. Ritengo, però, che farne un uso improprio, solo per un fine estetico, sia di cattivo gusto. Non utilizzo parole a caso per giungere alla rima. Se ti può sembrare forzato, ti invito a un ascolto più attento, cercando di capire il tema trattato e il perché abbia utilizzato determinati termini. Per esempio se canto la parola follia non la metto perché suona bene con bugia. La follia è una parola che descrive perfettamente lo stato di una persona malata di Alzheimer, in un momento della vita in cui la ragione perde ogni senso. La vita, intesa come dono, come splendida opportunità nella condizione del malato ci appare come una bugia. Posso continuare su tutte le rime delle canzoni, ma temo mi dilungherei troppo.

 

Quando ascolto lavori di autori “giovani” nella carriera che, soprattutto oggi, puntano a riferimenti classici, mi viene subito una domanda: come la scena underground di ora è riuscita a non contaminarti oppure a farlo in modo assolutamente trasparente?

Pur non avendo assistito al momento in cui è esplosa una certa rivoluzione musicale, quella avvenuta negli anni ’60/’70 con l’affermazione di alcuni generi musicali a cui sono molto legato, sono cresciuto ascoltando una determinata musica perché in quel momento gli autori di canzoni a cui fai riferimento, a meno che non intendi musica classica, erano in vita e producevano ancora la loro musica. C’è stato un momento in cui si dava molta attenzione a chi sapeva suonare oppure a chi sapeva scrivere. Oggi non mi pare: mi sembra che non sia premiata la bravura, la tecnica, piuttosto mi sembra che vada per la maggiore l’approccio “famolo strano”. Non mi piacciono le mode, sono legato a un certo modo di concepire la musica e ad alcuni generi musicali che, per quello che mi riguarda, non tramonteranno mai.

 

E quindi ti chiedo di rimando: cosa pensi di aver preso dal presente in musica? Che dal passato è ben chiaro direi…

Ascolto musicisti, band e cantautori odierni ma spesso si rifanno non alla musica che oggi va per la maggiore. Soprattutto musicisti internazionali che riescono a proporre in una veste elegante e sopraffina quella che è stata la musica di un tempo e che le radio commerciali hanno dimenticato per ragioni, secondo me, non prettamente riconducibili alla qualità. È un nuovo modo di concepire un certo tipo di musica e sono musicisti e autori che riescono a influenzarmi. Per esempio, pensare che il blues sia roba vecchia, significa escludere dalla propria conoscenza musicale l’esistenza di autori che propongono blues moderno con il quale questi riescono a conquistare una fetta di pubblico considerevole. A me piace l’idea che un artista prenda uno strumento e con esso si accompagni degnamente in un’esibizione. Oggi si tende a surrogare il suono di qualsiasi strumento e non riesco a trovare una passione per le nuove tendenze musicali in cui questo fattore è preminente.

E come nel video e nell’artwork di questo disco così in genere trovo che spesso un cantautore leghi il proprio immaginario solo a disegni o in genere ad immagini. Dal tuo punto di vista cos’è scattato?

Mi piace l’idea del connubio tra più arti. Il disegno lascia molto margine di interpretazione nel rappresentare un’idea musicale o una canzone. Quindi mi sono affidato a Francesco Colafella, un bravissimo artista che già conoscevo e che ho stimato per i suoi precedenti lavori.

 

“L’arte di una madre” è un brano strumentale. Non c’erano parole per descrivere l’arte dell’essere madre? Oppure non volevi darne confini e raffigurazioni precise come ad intendere che ognuno possa vederci del suo?

In effetti nel booklet del disco si può trovare, nella pagina dedicata a questo brano, dei versi che raccontano l’arte di una madre, in particolare della mia. Siccome sono nati senza una precisa metrica ho lasciato questi versi senza una musica su cui cantarli. Ho voluto comunque associare un’idea musicale che rappresentasse le parole che ho scritto. Detto ciò, ritengo che anche le parole possano fornire molteplici interpretazioni. Quante volte una canzone che racconta altro trova spazio nella vita di un ascoltatore per un voluto malinteso? Comunque non è la prima volta che inserisco un brano strumentale in un disco di canzoni. In una canzone presente nel disco, dal titolo “Io mi sento chitarrista”, rendo palese la mia passione per la chitarra ed è per me del tutto naturale creare brani strumentali.