Sassofonista jazz e compositore dall’inestimabile talento, Stefano Bedetti – che ha vissuto a New York circa cinque anni – grazie alle sue indiscutibili qualità artistiche annovera una serie di prestigiose collaborazioni al fianco di vere e proprie stelle del jazz italiano e internazionale, fra cui Billy Hart, Ed Howard, Victor Lewis, George Cables, Jimmy Howens, Dave Stryker, John Riley, Tony Scott, Adam Nussbaum, John Patitucci, Antonio Sánchez, Cameron Brown, Ratko Zjaka, Giulio Capiozzo, Marco Tamburini, Simone Zanchini, Renato Chicco, Flavio Boltro solo per citarne alcuni. Il suo stile è figlio di un notevole bagaglio tecnico comprendente Sheets of Sound, Inside-Outside Playing, fraseggio torrenziale, suono potente e diretto, Growl, abbacinanti nuances timbriche che utilizza sfruttando ed esplorando magistralmente tutti i registri del sax, ma anche un playing più essenziale e meno vibrante come nel caso di Chinese Sundays. Infatti, in questo suo nuovo capitolo discografico pubblicato dall’etichetta Barly Records, registrato insieme a due eccellenti compagni di viaggio come Yazan Greselin (organo hammond) e Max Furian (batteria), Stefano Bedetti cerca di narrare e descrivere le sue emozioni in modo più sobrio e pacato rispetto alla sua solita veemenza comunicativa, firmando otto composizioni originali che rappresentano il suo vissuto personale e artistico, pur nutrendo sempre un profondo rispetto per il suo background e per le sue radici.

 foto di copertina di Marco Monesi Heartist

 

“Chinese Sundays” è la tua nuova creatura discografica comprendente otto tue composizioni originali. Qual è il filo conduttore di questo album?

Il filo conduttore delle tracce contenute in questo disco sono le emozioni, quelle vissute in questi ormai dieci anni dal mio rientro da New York. Sono emozioni riguardanti le mie esperienze di vita personale e musicale che ho deciso di trasferire sul pentagramma in un modo inaspettato, almeno così mi dicono le persone che lo ascoltano. Io credo di sapere cosa intendono, perché da me si sarebbero aspettati un lavoro più muscolare. Però, in realtà, questo è un CD che ho fatto di pancia, non di testa, per cui quello che sentivo si è manifestato in maniera discretamente melodica. Penso che averlo terminato nel periodo di Natale del 2021 abbia avuto il suo peso in tal senso.

A proposito dei tuoi brani originali, nel corso degli anni, il tuo approccio compositivo è notevolmente cambiato rispetto al passato?

In verità il mio approccio compositivo è sempre lo stesso, perché mi baso solamente su quello che sente la mia anima, quindi non sono uno che scrive pensando alle geometrie o alle regole armoniche. Non mi preoccupo tanto di essere ortodosso o di voler far combaciare i tasselli a tutti i costi. Io scrivo quello che sento in maniera del tutto impulsiva. Lascio veramente che le cose escano in modo naturale, e poi, una volta raggiunto questo obiettivo, piuttosto dedico molto tempo a raffinare l’idea di partenza. L’impulso deve essere totalmente spontaneo, di getto, mentre successivamente cerco di sistemare il tutto con gusto estetico e musicale più elevato possibile. Credo che questo approccio funzioni bene per me, perché dà l’opportunità alla mia creatività di emergere, permettendomi di essere abbastanza originale.

Per questo nuovo disco non hai scelto la “classica” formula del Piano Trio, bensì l’Hammond Trio con un fulgido talento come Yazan Greselin all’organo e un musicista di grande esperienza quale Max Furian alla batteria. Soprattutto dal punto di vista stilistico e del sound, quale fattore ti ha spinto a registrare con questi due jazzisti?

Anche la scelta della formazione, intesa come scelta degli strumenti da impiegare e dei musicisti con i quali condividere questo disco, è stata abbastanza naturale e per me scontata. Sicuramente la formula “Organ Trio” viene da molto lontano. Ho al mio attivo diversi dischi, da sideman, registrati con questo tipo di formazione. La cosa bella di questo strumento, per me magico, è che si possono esplorare tutti i colori della musica, sia quelli acustici, più “classici”, sia quelli più “moderni”, ma sempre con un groove che solo con l’organo Hammond puoi ottenere. Ho scelto Yazan Greselin perché oltre a essere una persona speciale per me, è anche un musicista molto preparato, nonostante sia giovane – e quando dico preparato intendo soprattutto empaticamente preparato (caratteristica non ovvia ai giorni nostri), oltre a essere attento specialmente alle dinamiche di questi brani, i quali rispecchiano appunto le mie emozioni, quindi non semplici da interpretare e da gestire. Max Furian perché lo conosco dai tempi della mia frequentazione milanese del “Capolinea”, del “Grillo Parlante”, del “Tangram”, de “Le Scimmie”. Avevo poco più di vent’anni e già suonavamo insieme – e da quel momento c’è sempre stata un’intesa umana e musicale incredibile. Lui è anche uno dei batteristi più affermati in Italia e non solo, è un uomo di grande esperienza, è un musicista capace di suonare qualsiasi genere con grande padronanza e maestria, quindi, in questo caso, in un organico così ridotto, avevo davvero bisogno di un maestro del suo strumento, perché come mi hanno insegnato a New York, il batterista può dare luce al tuo gruppo oppure può distruggerlo.

Focalizzando l’attenzione ancora sulla scelta dei musicisti e delle formazioni, per quanto concerne l’interplay, l’idea di sound e l’imprinting stilistico, specialmente per la sezione ritmica, cosa cambia nello specifico per te fra un Hammond Trio e un Piano Trio in cui tu sei il solista?

Ovviamente se devo suonare in trio o in quartetto con il pianoforte, oppure in trio con l’organo, o con l’organo e la chitarra, sono tutte situazioni e condizioni che portano a gestire diversamente i miei interventi o la mia scrittura, ma anche i miei soli. In questo caso ho cercato realmente di essere il più naturale possibile, di lasciare che si manifestassero tutti i miei linguaggi. Ho provato a suonare “alla vecchia”, come si dice in gergo, ma ho anche tentato di dare spazio ai miei studi recenti, che logicamente fanno parte di un mondo e di un playing più moderno, più articolato, più massiccio, però sempre con l’idea di base del suono e dell’approccio alla melodia pensata come avrebbero fatto i miei maestri, che sono appunto tutti i grandi sassofonisti del passato, dal bebop al free, quindi tutto il periodo degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta.

Ritornando sulla tua nuova opera discografica, per ciò che riguarda segnatamente gli arrangiamenti dei tuoi brani, hai fornito indicazioni particolari a Yazan Greselin e a Max Furian oppure hai preferito che si esprimessero piuttosto liberamente?

Per quel che riguarda gli arrangiamenti e la gestione dei brani, tutto quello che ho detto ai ragazzi, oltre ad averli dato le parti da leggere, è stato spiegare le strutture e il suono che a volte mi serviva sentire, ma poi ho lasciato loro la massima libertà interpretativa. Questo ha fatto sì che i brani si registrassero alla prima take. In alcuni casi abbiamo inciso la seconda take di sicurezza, di verifica, ma in realtà, dopo aver provato i temi, anche perché io non immaginavo come avrebbero suonato questi brani in un organico così ridotto, mi sono reso conto solo in studio che invece sarebbero stati molto potenti. Tutto è venuto fuori in modo fluido e naturale. Questo grazie ai ragazzi che hanno potuto suonare liberamente e avere la possibilità di manifestare tutto il loro talento e la loro sensibilità.

“Chinese Sundays” è un progetto discografico per il quale hai già in calendario diverse date di presentazione?

Ho potuto realizzare questo disco grazie alla presenza di Michela Parolin, con la quale collaboro da un anno, la quale oltre ad averlo prodotto fisicamente ed economicamente, mi ha fornito grande stimolo, dimostrato grande fiducia e trasmesso sicurezza. Michela è stata una pedina veramente fondamentale per me. È anche la mia agente, per cui con lei e Vittorio Bartoli, il quale ringrazio per aver creduto e aver pubblicato questo album, stiamo iniziando a proporlo per la programmazione autunnale. Il mio nome, in questo momento, è abbastanza visibile – e sto ricevendo buoni feedback da ogni parte del mondo – dunque spero che nel periodo autunnale si possa presentare questo progetto in più luoghi e locali possibili. Sono sicuro che sia musica che arriva e che arriverà a tutti, perché penso che tutti ci siamo sentiti, almeno una volta o più nella vita, come mi sono sentito io in questi anni, cioè come in una domenica cinese (traduzione in italiano del titolo del CD, n.d.r.). Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno partecipato alla realizzazione di questo lavoro, perché dopo tanti anni non è stato facile tornare a registrare nel ruolo di leader.