Questo incontro-intervista avrebbe potuto in realtà avere titoli diversi, rilevando i differenziati temi ispiratori che hanno caratterizzato i centellinati lavori fonografici della vocalist leccese.
In testa ad una concentrata discografia segnata dal carattere di monografia-dedica, perviene un nuovo recital teatrale (finora) incentrato sulla storica scuola dei cantautori genovesi; abbiamo dunque inteso fissare nel titolo il più nuovo (e corrente) tra gli spunti d’interesse di Serena Spedicato, cercando di affrontarli con spirito di completezza, riferendoci anche alla sua formazione e alle svariate progettualità, in ciò adiuvati dalla intrigante verve discorsiva della medesima.

Foto di copertina di Marina Damato

 

Un racconto della voce: storia, geografie, scienze applicate…

Difficile contenere in poche righe tutto il mio vissuto umano, artistico e professionale. Provo a dare forma: sono cresciuta a pane e jazz, musica classica e d’autore con una ‘Curiositas’, sin da piccola, sempre pronta ad infiammarsi. Conservo ancora tutte le musicassette che mio padre mi regalava. Cito solo alcune delle significative influenze che hanno ispirato il mio percorso artistico: Norma Winstone, Sidsel Endresen, Kenny Wheeler, John Taylor, Fred Hersch, Carla Bley, Charlie Haden e …. continuerei senza sosta.

L’ascolto è stato l’imprinting essenziale per la mia formazione, ricerca e prassi musicale. La mia memoria stabile. La carriera di cantante ha inizio nel 1997 ricoprendo giovanissima il ruolo di vocalist nell’organico dell’Orchestra Jazz del Conservatorio Tito Schipa di Lecce guidata dal Maestro Luigi Bubbico e che mi ha iniziato allo studio del linguaggio Jazzistico. Seguiva il percorso di studi accademici fino al diploma in Canto Jazz unitamente ad un’intensa attività concertistica in numerose formazioni di estrazione jazz, corale e orchestrale da cui provengo e che sono ancora in atto. Non saprei fare senza l’Arte.

“Genova, dicevo, è un’idea come un’altra”… magari c’è un nuovo progetto?

Un nuovo progetto felice è lo spettacolo di teatro-canzone “Io Che Amo Solo Te. Le voci di Genova” in cui ricopro le vesti di cantante/voce narrante. Un progetto originale nato dal mio desiderio di raccontare una delle pagine più significative della Genova degli anni ’60, la scuola genovese, e ripercorrere le vite, le storie e le canzoni dei cantautori genovesi. Intellettuali e poeti prima che cantanti, alternativi nei valori e negli stili, ispirati dal jazz, la filosofia esistenzialista e gli chansonniers francesi, hanno esplorato e raccontato l’amore e l’esistenza come mai prima. I progetti sono felici se felici son gli incontri che li generano: con lo scrittore Osvaldo Piliego che ha firmato i testi originali, Vince Abbracciante, fisarmonica e arrangiamenti originali, Nando Di Modugno, chitarra classica, Giorgio Vendola, contrabbasso e la regia di Riccardo Lanzarone. Una produzione Dodicilune e Cooperativa Coolclub, con il sostegno di Puglia Sounds Producers, e che dal 2022 andrà in scena nei teatri italiani ed esteri. Continuiamo a donare Bellezza!

ph Maurizio Bizzochetti

Lambisce quasi i giorni correnti ed ha riscosso apprezzamento l’operazione su David Sylvian: non potendosi puntare ad un’imitazione si è optato (saggiamente) per una rivisitazione personale.

Brilla ancora la coda di cometa!! “The shining of things. dedicated to David Sylvian” è un progetto discografico firmato insieme al raffinato pianista Nicola Andrioli, pugliese d’origine ma da anni residente in Belgio, anche autore degli arrangiamenti originali. Con il suono ricercato del trombettista finnico Kalevi Louhivuori e lo spessore poetico del percussionista Michele Rabbia: presenze preziose per la profondità che il loro talento comunica. Ancora, una produzione Dodicilune del 2019, con il dono delle pregevoli note di copertina a firma del sassofonista Roberto Ottaviano; e il suono del disco è frutto del meraviglioso lavoro di Stefano Amerio presso Artesuono. Un progetto fortunato: conserva numerose recensioni positive, in Italia e all’estero, e da marzo 2020 pubblicato anche in formato vinile vergine a 180 gr in edizione limitata e numerata.

La rilettura del songbook di David Sylvian, come amo affermare, significa: affetto. Verso un artista le cui fascinazioni, han tracciato solchi profondi, dentro me. E ad ogni ascolto. Come un rituale mantrico. Autore di culto della musica ambient e minimale, ha saputo trasfondere il glam rock e l’elettronica al jazz d’avanguardia, non trascurando liriche di altissimo valore poetico e spirituale. Non da ultimo il rapimento per la sua voce: coperta di bruma e crepuscolare. La ricerca del suono e il suo processo esperienziale, le atmosfere aperte e rarefatte, la libera espressione del linguaggio improvvisativo come alternativa alla forma sono, a mio modo di intendere, passaggi esplorativi evidenti ad un certo momento della sua produzione, e segnatamente per le collaborazioni intrecciate con musicisti di grande prestigio della scena jazz nordica e d’avanguardia, per citarne alcuni Kenny Wheeler, John Taylor, Bill Frisell, John Hassel, combinando a suono ed elettronica gli strumenti acustici, nuovi linguaggi, improvvisazioni jazzistiche e interazione creativa del singolo musicista e che lo legano necessariamente ad una dialettica identitaria del jazz europeo. È stato questo filo rosso a dare vita al ‘concept’ e ad uno ‘splendore’ senza fine.

 

Più a ritroso, una similare operazione su Tom Waits.

Ogni scelta artistica è stretta a nodo con la voce intima del mio sentire. Non ho mai saputo prescindere da questo legame. “My Waits. Tom Waits Songbook” (edito sempre da Dodicilune, 2012) nasce anch’esso da una profonda devozione per un poeta ‘maudit’, che ha saputo affermare la sua espressione artistica unendo la sua voce roca e inconfondibile all’abilità di combinare stili e stilemi musicali differenti, attingendo dal blues, jazz, vaudeville, dalla musica ‘industrial’, a testi visionari, che trasportano l’ascoltatore in un mondo grottesco abitato da uomini sofferenti ed emarginati. Il songbook è tratto dalle prime discografie (da “Closing Time” del 1973 sino ad “Heartattack and Wine”, 1980), acclamate dalla critica e impreziosite dalla presenza di cammei leggendari come “Tom Traubert’s blues ,”Muriel”, “On the Nickel”, “Invitation to the Blues” … Tutte dominate da una forte componente pianistica e compositiva e che mettono maggiormente in risalto le sue abilità di cantastorie. La scelta è caduta sul Waits dallo stile più composto e meramente cantautoriale rispetto alle ‘spettinate’ ed estrose tracce che troviamo nei dischi successivi. Il suo stile non è semplice da rileggere ed interpretare, proprio perché Waits lo ha ritagliato su misura. Vista quindi la sua inimitabilità e visto che il senso di questo lavoro è stato proprio quello di spogliarlo della sua americanità, ho voluto guardare principalmente ai suoi aspetti melodico/compositivi e al significato dei suoi visionari versi. “My Waits” è stato arrangiato da Pierluigi Balducci, anche bassista nel disco e interpretato da Gianni Iorio al bandoneon e pianoforte, Antonio Tosques chitarra e Pierluigi Villani. Un disco che mi ha donato tanto. In consapevolezza e “sguardo verso”.

ph Giacomo Rosato

Più cantante o story-teller? (o entrambe?)

Ho un trasporto innato per il Canto introspettivo e misurato mai vincolato a manierismi e una cura artigianale per il suono. L’approccio naturale e sincero al canto è il sentiero che ho percorso per giungere alla mia autenticità espressiva. La parola cantata è ricerca incessante. Così come la narrazione in musica, raccontare a cosa o chi è legato emotivamente un brano, saper entrare in un transfert espressivo in cui non sono solo le note a signoreggiare. Assecondare il ritmo della parola regolando il fiato, abitare la parola mirando alla vocalità come resa poetica, diventare tutt’uno con la parola è animo da interprete. Ed io non lo nego mai all’atto creativo musicale: sono dunque canto e parola.

 

La diplomazia sconsiglia di nominare le cattive Maestre: limitiamoci ai modelli virtuosi.

Non esiste il bravo Maestro o meno. Esiste “l’incontro” che farà bravo il Maestro e bravo il discente.

 

Il Salento: in vita, in arte

Non ho mai provato il desiderio di abbandonare le mie radici. Ho sempre guardato alla mia terra, il Salento, come opportunità di scoperta per riscoprire, nonostante i nonostante. Se vero è che lo stato mentale fa il luogo, posso dire d’aver saputo cogliere il buono e il bello da ogni angolo di cielo del mio tiepido e amato Sud. E restringendo la visuale, in musica: la Puglia è una terra che miete talenti. La scena musicale è sempre fervida e il livello dei musicisti di qualità, tutto fa credere nella possibilità e nelle nuove generazioni che formeranno il pubblico di domani.

 

Qual è il bilancio del ‘mestiere’ dell’Artista?

Non fare bilanci, continuando ad essere interpreti nel modo in cui la musica ne ha bisogno.

 

Una sortita a piacere …

Volli! Sempre volli!! Fortissimamente volli!!! …Da ricordare.

…vedremo con i fatti.

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Serena Spedicato