Artista di trasversale popolarità e gradimento, “cantatore” di natali casertani ma residente a Roma che alla sfera canora ha conferito peculiare spessore, implementandola di una ricca e caratteristica fisionomia teatrante, intessuta di suadente vocalità e di cattivante gestualità, rendendo appagante, con cifra personale e soprattutto istrionica, la partecipazione ai propri diversificati spettacoli, Peppe Servillo può vantare una sfaccettata e non certo parca carriera ed attività che non si esaurisce certo nell’essere il frontman della band Avion Travel, ensemble che ha attraversato più incarnazioni, e pervenuto ad enorme popolarità grazie all’inattesa vittoria sanremese nel 2000 in virtù di una sofisticata proposta (per cui si arrivò anche a commentare che “un certo snobismo occupava un posto anomalo”) salvo poi registrare una ancor più inattesa bocciatura alla nuova candidatura alla competizione di Sanremo.

Varie (anzi ormai fuor di contabilità) le collaborazioni con artisti non soltanto italiani, spesso provenienti dal mondo del jazz (tra cui Stefano Bollani, Rita Marcotulli, Fabrizio Bosso e la lista prosegue) come pure la raffinata realtà del Solis String Quartet ed altre libere associazioni, con cui si è investito anche nella rivisitazione di popolari artisti della canzone tra i quali Domenico Modugno o Adriano Celentano (ed altri, come si leggerà), offrendone una reinterpretazione spesso sorprendente non dimenticando anche il suo esser animatore, da primus inter pares, del trio vocal-strumentale italo-argentino Servillo-Girotto-Mangalavite, tuttora in pista e vitale.

Conversatore civile, sempre graziato da modestia e indubbia chiarezza per ogni tipologia di interlocutore, il Nostro pur aperto a domande di carattere astratto o generale ha per l’occasione preferito concentrarsi piuttosto su aspetti più tipici (ed anche nuovi) del proprio lavoro, includendo le criticità correnti, trasmettendo una visione entusiasta, quantunque critica dal proprio punto di vista, del “mestiere dell’Artista”.  

Breve profilo dell’Artista Peppe Servillo.

L’esperienza Avion Travel è stata quella più determinante per la mia formazione; la carriera d’attore, pur importante, ha rappresentato un passaggio successivo, ma direi che la mia “natura teatrale” mi ha condotto a far convergere le due realtà, ritenendo che il mestiere d’attore abbia avuto, ed abbia, molto da trasmettere ed insegnare alla mia veste di cantante.

Costituito il gruppo nel 1980, abbiamo attraversato negli anni ’80 l’ondata del nuovo rock italiano, e gli anni ’90 hanno portato con l’esperienza presso Sugar la grande triade discografica (oltre al successo sanremese).

La band si è ora ricostituita da quattro anni, nel 2018 abbiamo pubblicato il nuovo disco e ora ci accingiamo a festeggiare, se non i nostri “primi” quaranta anni, semplicemente i “nostri” quaranta anni d’esistenza ed attività.

Chiaramente un pensiero va anche al recentemente scomparso Fausto Mesolella, grande chitarrista che con il suo talento è pervenuto nella band più avanti, nel 1986, ma è stato il personaggio cui il gruppo ha sempre guardato con grandissima curiosità.

 

Forse, non del tutto appropriatamente, si è posto l’accento sui tratti e sui segni partenopei della Vostra espressione, non tributando uguale attenzione alla città d’origine della “banda casertana”.

Ciò, se posso dire, è un “male” fino ad un certo punto, perché non neghiamo che la nostra espressione e le nostre scelte stilistiche hanno per lo più fatto riferimento a quella realtà, che continua ad improntarci, e se io vivo a Roma da oltre trenta anni, è alla realtà di Napoli che va costantemente il mio pensiero.

 

Emendati dalla colpa, possiamo dunque e liberamente concentrarci sull’essenza dell’identità partenopea, per come è vissuta nella tua Arte.

Nello specifico trovo di centrale importanza, e non solo per il mio lavoro, la canzone napoletana, che è figlia di quel teatro musicale che storicamente punta al ‘700 (con tutti quegli autori storici, i Cimarosa, Pergolesi…). È tutto un mondo portatore di un “valore” che anche nella mia arte si esplicita nell’interpretazione gestuale, nell’uso del corpo, nella mimica, tutte componenti di una dimensione del teatro di cui io porto avanti una mia interpretazione.

Va poi da sé (ed è storicamente verificabile) che la canzone italiana nel senso popolare sia a sua volta figlia della canzone napoletana; non è del resto un caso che il Festival della Canzone italiana sia stato preceduto nel tempo da quello della Canzone napoletana.

 

Andiamo ad un’altra grande realtà, il trio Servillo-Girotto-Mangalavite, due diverse espressioni del Sud dell’Occidente: la miscela è ancora attiva?

Certamente. Dagli inizi, due grandi musicisti quali Javier Girotto e Natalio Mangalavite hanno sempre considerato il mio modo di cantare ed esprimere molto affine alla loro visione di italo-argentini, cosa che mi ha molto lusingato e da cui ho poi avuto molto da imparare, in una realtà di mutuo scambio con cui il trio ulteriormente va accrescendo la propria fisionomia. Del trio, posso già anticipare che è in preparazione un nuovo album, il quarto, che dedicheremo al grande Lucio Dalla, artista che direi ha già rivelato per intero la sua statura d’artista, che noi dal nostro canto abbiamo molto sviscerato e al quale offriamo testimonianza ed omaggio dal nostro punto di vista italo-latino-sudamericano, ricordando che anche in Sudamerica Lucio ha avuto modo di prodursi ed esser apprezzato più e più volte.

 

Avendo attraversato almeno due (o forse tre) fasce generazionali di pubblico, l’ultima delle quali inclusiva dei “millennials”, quale fisionomia attribuire al pubblico contemporaneo?

I riscontri sono certo positivi e lusinghieri, ma non mi considero un trascinatore, con la presunzione di coinvolgere intere generazioni; ho fatto tesoro dell’opportunità di potermi esibire anche su ribalte molto popolari, ma rimane il fatto che le proposte fatte nei vari spettacoli sono state connotate da prese di posizione forti e precise, non potendo così aspirare per vocazione ad una popolarità universale. Del resto, questo è coerente alle scelte che io compio anche da ascoltatore.

Sono anche consapevole degli influssi derivati dai media virtuali, ma non direi di averne avvertito particolarmente le conseguenze, del resto, pur non disconoscendo la realtà connessa al mondo di Internet, inclusa la vendita di musica attraverso questi strumenti, confermo tuttora di non sentirmi particolarmente legato né sintonizzato, per temperamento personale, a questa realtà.

 

In effetti non è nuovo riscontrare un tuo limitato investimento sulle piattaforme in rete. La nostra conversazione, ad esempio, non avviene tramite un mezzo social o virtuale ma, molto analogicamente, al telefono.

Sì, di mio continuo sicuramente a non avvertire particolare confidenza o feeling nei confronti di questi media, verso cui mi sento in qualche modo frenato da un certo mio… pudore, direi. Questo non è comunque una regola assoluta, ad esempio, è stato allestito uno specifico sito di promozione per quanto atteneva ai miei spettacoli con i Solis, così come le attività del trio con Girotto e Mangalavite sono riscontrabili in rete, anche se sul sito dell’amico Javier Girotto.

 

Due concetti importanti “onestà” e “libertà”: in arte sono antitetici o conciliabili?

Il mestiere dell’artista ha per natura a che fare con l’invenzione e quindi un po’ con l’ipocrisia, che dunque mette in gioco l’onestà comunemente intesa, quanto alla libertà è noto come durante l’attraversamento di certi regimi la libertà in arte ha dovuto vivere censure e sotterfugi. Parlando poi delle libertà delle proprie scelte per realizzarsi nella propria arte, devo dire che ciò cozza con modelli imposti dall’alto, dall’industria nella misura in cui questi possano essere fruibili, nel senso più precipuo di vendibili.

Permane e secondo me deve esser valorizzata l’onestà quale seria, produttiva ricerca intellettuale, una valida messa in scena con un fruttuoso contatto tra artista e pubblico.

Non escludo affatto vi siano, anzi ammiro ed apprezzo artisti ad autori molto seri che riescono a svincolarsi dai modelli imposti, con la capacità di realizzare progetti di grande e comune interesse. Ma questo è un qualcosa che permane molto distante da certi esempi di suggestione dominante, imposte con forme spettacolari da grandi numeri, in cui però il livello di percezione e consapevolezza mi sembra invece bassissimo.

 

Cattivi Maestri vs Modelli Virtuosi (o viceversa)

Non avendo la presunzione nemmeno di identificare esempi di questo o quel versante, dico che comunque non è raro il riscontro di artisti che sarebbero anche un valido modello, salvo poi essere “cattivi maestri” sul piano personale. Temo che spesso si “costruisca” un modello, insomma un personaggio facilmente vendibile, capace di raccogliere successo ed esercitare suggestione, che aggrega “valore” millantando storie personali imbastite ad arte, nei fatti del tutto differenti dal loro reale vissuto, ma funzionali a conferire interesse al personaggio stesso.

 

Ti è proprio il concetto di “affabulazione”?

Direi certamente di sì! Ed è anche ciò che mi dispongo a “subire” (ed apprezzare) da spettatore, e mi affascina, una strada che io stesso cerco di praticare sovente, per non dire costantemente, alla ricerca di sempre nuove idee e soluzioni, per conferire ulteriore credito e valore al mio lavoro.

 

Stiamo per venir fuori da una grande criticità, che nel periodo appena precedente ha rivelato la fragilità del mondo e, non ultima, della società dello spettacolo.

In realtà bisogna dire che queste criticità esistevano già da prima, e non avevamo davvero bisogno di una epidemia da virus per prenderne atto. Quanto alla soppressione delle occasioni di spettacolo, e dunque della realtà di “lavoratore“ dell’artista, ritengo che si sbagli a ritenere che la categoria fosse in precedenza più considerata.

Se qualcuno credeva di aver raggiunto o conseguito un “titolo” di artista, per non dire della “condizione” del successo, tale riconoscimento spetta ed è necessario a chi il mestiere lo pratica quotidianamente con rigore e disciplina. La privazione della possibilità di partecipare alla realtà dello spettacolo si traduce in una ferita per tutti… forse più per qualcuno che per altri, che ci rende tutti più consapevoli di quanto questo sia un mestiere davvero molto difficile ma, condividendolo con il nostro pubblico, questo ci riesca da sprone a tutelare insieme il senso del bene comune. Si è palesata la necessità di far ricorso anche ad espedienti, certo utili, ma direi che su tutto si è affermata la consapevolezza di scoprire che la comunità si ritrova nel momento della partecipazione intorno ad un evento artistico, conferendo allo spettacolo stesso valore civile, informando e coinvolgendo le persone.

 

“La vita somiglia molto al jazz… è meglio quando si improvvisa” (George Gershwin)

Eh, Gershwin è una grande figura e un grande modello, così come il jazz lo è! E certamente concordo con quanto sia importante l’improvvisazione nel jazz, con il suo linguaggio così complesso. Devo però dire che almeno nella mia arte l’improvvisazione non mi è propria, certo mi ci ritrovo un po’ come attore e quello che si può considerare l’errore di oggi può generare nuove idee e nuovi spunti. Ma diversamente da quanto si può pensare faccio riferimento ad un linguaggio scritto, complesso e rigoroso e, se mi si chiede dell’improvvisazione, non è qualcosa che io possa dire di saper fare!

 

Ti consideri più dionisiaco o apollineo?

Apollineo certamente nella qualità dei testi e nella preparazione che attualmente pongo in atto per gli spettacoli; poi, la libertà e l’appagamento che riesco a sperimentare sul palco sono una dimensione certamente più… dionisiaca!

 

Ci congediamo tornando al tuo ormai consolidato, introduttivo marchio di fabbrica da palcoscenico “Innanzitutto, la buona creanza”: una campanella gentile in un mondo sgomitante e chiassoso?

È questa una analogia che mi piace, e certamente mi sento di condividerla. Ho avvertito l’opportunità di un invito, un qualcosa che predisponesse bene il pubblico… ho sempre l’abitudine di scambiare due parole con gli spettatori, con cui il mio proposito non vuol essere quello di spiegare, piuttosto quello di sollecitare verso il viaggio che insieme al pubblico si compie.