Due anni di prove e sperimentazioni, evoluzioni di produzione che conducono ad un disco come “Contastorie” dentro cui ritroviamo quel folk ruvido che personalmente mi rimanda (anche se sono poche le effettive connessioni) all’immaginario dei Creedence… mi riporta poi al cantautorato di forme pop che comunque hanno come scopo quelle di raccontare storie per l’appunto. Una mescolanza che in fondo non dispiace e che tanto deve ad un passato glorioso, americano in tutte le sue declinazioni. Dirlinger, che all’anagrafe si firma Andrea Sandroni, è riuscito in un disco che, anche se ancora privo di quel quid che rapisce, ci regala un suono che scorre e fluttua non senza quella ruggine di ferri battuti lasciati all’aria… e tutto sembra fermo agli anni ’70 almeno…

 

 

copertina cOntastorieTi definisci un “contastorie”. Ci sento dentro tantissimo l’America degli anni ’70. Eppure usi l’italiano: quanto senti che la tradizione cantautorale italiana influisce su questo disco?

Tantissimo. Sono cresciuto coi cantautori classici: Guccini, De Gregori, De André su tutti. La loro scrittura di parole e musiche mi ha forgiato a tal punto che le loro forme sono quelle che uso in maniera naturale. Da lì, poi, cerco sempre di muovermi, andando a cercare la parte di me più sensibile e libera da sovrastrutture.

In qualche modo invece cerchi di scardinarla, portarla verso una nuova forma di emancipazione?

Da quelle forme culturali che ho ormai assimilato cerco sempre di muovermi, andando a cercare la parte di me più sensibile, libera da sovrastrutture e attratta da nuovi stimoli. In quel modo tento di mettere davanti dei nuovi racconti rispetto alle radici culturali che sono sicuramente piuttosto evidenti.

La provincia in che modo si rende foriera di ispirazione e centralità? Questo è un disco che viene e resta nella provincia?

Credo che nasca a cavallo tra la provincia e la mia testa, che è nata e cresciuta in provincia. Però mi sembra che si inserisca bene anche in ambienti più urbani, nella frenesia della città. O per lo meno così mi è stato detto da chi lo ha ascoltato tra Roma, Milano, Torino. Questo anche perché cerco di avere con alcune storie un approccio più antropologico e meno sociologico: osservo l’individuo nel suo gruppo di appartenenza e cerco di carpirne o immaginarne pensieri e sensazioni in cui ci si possano ritrovare anche altri.

 

 

Il tuo rapporto con la voce è molto diretto, quasi narrativo: che tipo di ricerca e direzione hai voluto perseguire?

Queste canzoni sono costruite sui testi, i quali mi hanno suggerito una melodia più o meno precisa: su questa coppia “parole-melodia” si è costruita la composizione, poi l’arrangiamento e la produzione. La voce è portatrice sia delle parole, sia della melodia: per questo cerco di essere il più chiaro ed esplicativo possibile nel modo di cantare ciò che racconto.

Parliamo di suono: anche qui sembra che tutto torni indietro… che rapporto ha questo disco con l’elettronica del futuro? In che modo l’hai usata?

L’album è registrato con uno dei programmi più usati per la produzione e mi sono avvalso (con relativa parsimonia) delle potenzialità degli strumenti di cui dispone. Quindi posso solamente ringraziare l’elettronica di cui oggi disponiamo e che permette di autoprodursi con mezzi e possibilità relativamente ridotte.

E tutta la produzione è stata volutamente “artigianale”: quanto lavoro analogico c’è stato e in che misura?

Come dicevo, considerato che è tutto registrato via DAW, di analogico nel senso effettivo del termine c’è ben poco (chitarre, basso e voce sono comunque suonati). Piuttosto c’è stata una ricerca dei suoni e delle strutture della forma canzone che strizza l’occhio agli anni Settanta, cercando però di renderla in una maniera fresca affinché non risultasse una mera “operazione nostalgia”. Perché poi questo è il tempo che ci è dato di vivere, e pur restando – parafrasando un altro grande della canzone d’autore italiana – “con un piede nel passato”, è doveroso mantenere “lo sguardo dritto e aperto nel futuro” e nel presente, che ce n’è bisogno!