DINO BETTI VAN DER NOOT | The silence of the broken lute

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DINO BETTI VAN DER NOOT
The silence of the broken lute
Audissea, ADA 015
2021

“È un lavoro solitario, introspettivo”.

È vero. Dalle note di copertina firmate da Marcello Piras incluse nel libretto del nuovo, prodigioso disco di Dino Betti (anche questo un viaggio, io lo ascolto suddividendolo in quattro parti, come le facciate di un doppio elleppi: urge il supporto in vinile!) sottolineo questo primo punto. Coincide con un aggettivo che veniva in mente anche a me: è una musica   i n t i m a   quella che si ritrova in tutto il percorso creativo di Dino Betti e in modo molto specifico in questo album.

Il che credo si possa considerare una ben singolare annotazione per un disco suonato da un’orchestra di ventitre elementi.

Eppure è proprio così. E ripeto mai forse come in precedenza: lo rimarca quella parola, s i l e n c e, in un titolo carico, come in tante sue composizioni, di echi simbolici, di rimandi alla poesia, alla storia, al mito. Un silenzio che, nei due anni di gestazione compositiva di questo lavoro, ha significato una stasi pressoché assoluta. “Ho appena compiuto ottantacinque anni e sono sopravvissuto a una pandemia che non avrei mai immaginato di incontrare”, ci ha scritto il maestro. “Ho passato momenti di buio, ho avuto tanto tempo per riflettere e per molti mesi non sono riuscito a scrivere nemmeno una nota. Poi, improvvisamente ce l’ho fatta”, continua, “mi sono ribellato, e ho composto la musica di questo album che, credo, racconta abbastanza chiaramente i miei diversi stati d’animo, le mie reazioni emotive a un’emergenza inimmaginabile in precedenza. Sono cinque brani, di cui quattro nuovi: ho ripreso infatti anche una vecchia composizione degli anni Ottanta, che mi sembrava portatrice di speranza”, afferma riferendosi al brano Here comes springtime.

Certo, in qualche modo, il senso della musica di Dino Betti – di questo “The silence of the broken lute” – è proprio nella fascinazione del momento preciso – in realtà le fasi di lavoro – in cui “la vita interiore” si fa fenomeno sonoro, diventa relazioni e significato.

Una fascinazione – e prima ancora un senso – che viene restituita all’ascoltatore nel panismo di timbri, di accenti, di soluzioni armoniche, di iridescenza ritmica con cui l’orchestra quasi letteralmente gli tende la mano portandolo dentro al suono. Un’orchestra – sottolineo con l’evidenziatore – la quale nella pratica musicale di Dino Betti Van Der Noot è un sodalizio di anime. Che é l’altro aspetto delle note di Piras su cui ho appuntato l’attenzione e che nei suoi termini si traduce così: “Sembrerebbe che tutti i suoni del mondo si siano dati convegno per un giorno”.

Quei suoni che nascono “al momento di incidere”, nel momento preciso in cui il diario in note dell’autore “si apre ad accogliere in sé le idee degli improvvisatori negli ampi spazi loro lasciati”.

“All’ascolto, fin dai primi attimi – scrive Piras – siamo accolti da un concerto di suoni e timbri eterogenei (…). Appaiono e scompaiono, spesso intervengono per brevi sortite e si danno il cambio. Non sono soltanto timbri e colori tipici del jazz: ci sono anche viola e sitar, flauto contralto e arpa celtica” e nel tessuto percussivo, aggiungiamo noi, le tablas. “Voci arcaiche e contemporanee, occidentali e orientali, (…) lineari e tortuose. Un groviglio di identità diverse, ricondotte a unità.”

Ancora una traduzione, stavolta nei termini dell’autore: “puoi immaginare – ci rivela – la follia che è stata la registrazione, con tutti i problemi dati dal Covid, però ce l’abbiamo fatta; e ho trovato un grande entusiasmo – quasi un senso liberatorio – da parte di tutti i musicisti, a mio avviso straordinari, che ho coinvolto. Senza di loro, senza la loro generosità nell’ aderire a un progetto che non è più soltanto mio, ma che è diventato di tutto il gruppo, questa musica non sarebbe potuta decollare”.

Straordinari, e questo è certo. Ma prima ancora è quel “senso liberatorio” che davvero ci sembra fondamentale rimarcare. Perché se qualcosa di ulteriore questo quindicesimo album aggiunge al percorso già così stratificato dell’autore, questo qualcosa siamo inclini a credere che abbia a che fare con il carico pulsionale fungente nelle note, con un’urgenza espressiva inedita, con la giustezza un po’ miracolosa e quasi rinascimentalmente magica che le fa brillare dall’inizio – i primi cinque minuti sono pura fiaba sonora – alla fine. Qualcosa nata forse proprio dalla “follia” con cui è stato registrato cioè praticamente – e incredibilmente – a distanza.

A questo punto non posso non invidiare – dato che già so che non potrò farne parte – il pubblico che assisterà al concerto di presentazione dal vivo dell’album, il prossimo giovedì 28 ottobre, al Teatro No’hma Teresa Pomodoro di Milano.