Parliamo di un disco che è fuori da quale mese, torno su dei passi fatti di leggerezza e di gusto perché di questi suoni ne abbiamo bisogno soprattutto oggi dove di suo la vita sembra essere apocalittica, di un futuro digitalmente distopico. Ripartiamo dai rapporti umani e su questi ci muoviamo con delicatezza, così come è delicata la finissima sensibilità di Daniele Fortunato, cantautore e maestro di scuola, classico nella sua forma canzone, classico nelle scelte liriche e melodiche, classico di un suono suonato che è poi anche figlio del ruolo scenico che torna a restituire alla sua musica. Daniele Fortunato in questo disco dal titolo “Quel filo sottile” parla di vita e lo fa come vorremo che fosse la vita oggi: normale, semplice, quotidiana.

 

 

Di sicuro interessa parecchio il come un disco nasce. Tecnicamente hai fatto ricorso a suoni puliti e artigianali. Ci racconti la produzione?

Questo disco è arrivato dopo anni di silenzio dal punto di vista discografico.

Volevo riaprirmi, consegnando un disco autobiografico che parlasse di una parte di me in modo essenziale. Inizialmente volevo incidere le sette canzoni, tutte legate tra loro, unicamente con voce, chitarra acustica e armonica.

Successivamente ho deciso di dare ai brani un sostegno ritmico senza snaturarli, dando al disco sonorità “jazzy”, grazie ad un ensemble acustico di contrabbasso (Milko Merloni) batteria (Gianluca Nanni) e sassofono (Massimo Semprini).

 

L’estetica del suono a cosa mirava principalmente? Dove volevi dirigere il tutto?

A rappresentare la dimensione di un viaggio: nostalgico, fiducioso, incerto, passionale e consapevole. Un album nato per raccontare la relazione e le sue diverse forme.

 

Artista, cantautore delle passate generazioni ma anche maestro ai nuovi protagonisti della vita quotidiana. Un “filo sottile” anche questo… pensi resti ancora un punto di incontro tra questi due mondi ormai decisamente distanti?

La meraviglia emotiva che percepisco da sempre tra i banchi di scuola è alimentata dall’ “importanza dello stupore” e dalla curiosità dei bambini nel cimentarsi in nuove sfide.

Mi rivedo parecchio nei pensieri espressi dai miei alunni, e credo che il senso di appartenenza che riecheggia nella comunità scolastica, avvicini generazioni diverse attraverso scambi reciproci, ironia, e nuove connessioni. Siamo una società ormai abituata a narrare e a sottolineare la distanza; ma ci sono anche storie costruttive da raccontare.

 

Ed il tuo disco? In un tempo di suoni digitali, come pensi sia stato recepito? Ho molto forte l’impressione che il tutto prosegua un cammino che prescinde da tutto questo…

Dipende da come vivi e percepisci l’uscita di un progetto musicale.

Se è a breve termine, e indirizzato solo alla logica della playlist Spotify, può anche avere senso omologarsi ad un suono “del momento”, indubbiamente più digitale.

Ma il mio modo di vivere una pubblicazione è quello di incidere ciò che è più simile alla mia natura e ad un preciso periodo. Mi piace la possibilità di cambiare sonorità e colore ai brani, ma per contaminazioni e condivisioni con altri musicisti piuttosto che per un obiettivo legato al miraggio di un “mercato discografico”. Volevo realizzare un disco acustico, e così ho fatto. La cosa importante è che questo “racconto” venga colto da chi ama certe sonorità.

Bisogna voler bene alla propria andatura.

Un nuovo video? E anche qui, pensando al primo singolo, la scelta è stata assai classica…

Penso si debba avere un’idea decisamente forte (e magari un discreto budget) per realizzare un certo tipo di videoclip con una narrazione, altrimenti è più diretto e senza pretese farsi riprendere mentre suoni la tua canzone in terrazza!

Nella mente si rincorrono mille idee attorno ad un disco, e devo dirti che quelle che mi travolgono di più sono sempre intuizioni di melodie e di racconti, di arrangiamenti e atmosfere. Il desiderio che queste possano poi essere ben rappresentate da un video c’è, ma occorre anche l’incontro giusto, come per tutte le cose che funzionano bene nella vita.