CHARLES LLOYD | La musica come elemento di energia e seme di libertà

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Mentore di alcuni tra i più geniali e formidabili pianisti del jazz contemporaneo, con il suo quartetto Charles Lloyd è stato anche il primo a traghettare il linguaggio della libera improvvisazione e del jazz nell’universo del pop e del rock, raggiungendo cifre di vendita record e ampie fasce di pubblico tra i giovani. Nel suo sassofono e nella sua musica la eco di un’irripetibile stagione artistica e culturale unita a quella di una profonda e intensa spiritualità.

 

Precedendo di alcuni anni Miles Davis e i Weather Report tu e il tuo favoloso quartetto composto da Keith Jarrett, Cecil McBee e Jack DeJohnette siete stati i primi a suonare nei templi e nelle grandi arene del pop-rock, vendendo milioni di copie dei vostri dischi e condividendo il palco con artisti e gruppi amatissimi dai giovani quali Jimi Hendrix, Janis Joplin , i Byrds e i Grateful Dead. Quali ricordi hai degli stimoli e delle sfide legate a quell’irripetibile epoca?

Dopo i primi tempi passati con Chico Hamilton e Cannonball Adderley riuscii ad emergere a San Francisco suonando spesso dal vivo al Jazz Workshop e al El Matador. Nel 1966, dopo il concerto con il mio quartetto al Monterey Festival, ottenemmo un ingaggio di una settimana dai tipi dell’El Matador. In questo nightclub c’era un gruppo teatrale denominato “The Committee”, veramente fuori di testa. Poi folli personaggi e commedianti come John Belushi e il gruppo dei Second City di Chicago. Avevano il loro teatro su a Broadway. Ogni notte, quando terminavano i loro spettacoli, venivano a sentirci suonare. Uno di loro, Morgan Upton, una volta venne da me e mi disse: “Noi non siamo fanatici del jazz ma ogni sera ci piace venirvi ad ascoltare”. Mi suggerì di andare a suonare al Fillmore dove c’erano sempre parecchi giovani. Gli chiesi chi ci fosse a suonare lì e lui rispose: “Muddy Waters”. Io dissi: “McKinley Morganfield, diamine, lo conosco!”. Lui ci presentò a Bill Graham che mi invitò al suo emporio. Subito dopo iniziò a spargersi la voce anche nei quartieri che non bazzicavano il jazz e i gruppi rock facevano a gara per stare in cartellone con noi, perché la libertà che sprigionava la nostra musica improvvisata li faceva impazzire. C’era addirittura un disc jockey, Tom Donohue, che trasmetteva la nostra musica per radio. Le barriere iniziarono a cadere e si poteva ascoltare la nostra musica insieme a quella di Ravi Shankar, Grateful Dead, Paul Butterfield, Quicksilver Messenger Service, Janis Joplin, Jefferson Airplane, Jimi Hendrix, i Cream e Howlin’ Wolf. Ricordo che Santana mi confessò che veniva sempre al Fillmore a sentirci dal vivo e che si metteva in prima fila gridando: “Libera la gente, Charles! Libera la gente, Charles!”.

 

Sei riuscito a scoprire e a suonare con pianisti meravigliosi ed eccezionali quali Keith Jarrett, Michel Petrucciani, Bobo Stenson e Jason Moran. Cosa cerchi principalmente nella voce e nella personalità di un pianista?

Due anni fa dovevo tenere un concerto a Minneapolis al quale però Jason Moran non poteva partecipare. Così invitai Gerald Clayton a suonare con il quartetto. Lui stava dietro le quinte del palco ogni volta che gli capitava d’incontrarmi in giro per il mondo. Fui in grado di percepire il grande talento che sgorgava in lui e perciò lo invitai a fare con noi anche il concerto successivo. Lo scorso febbraio, io e Gerald abbiamo suonato un concerto in duo a San Antonio che si è rivelato come un’esperienza profonda e magnifica. Dall’età di nove anni Phineas Newborn è stato il mio mentore a Memphis e ha piantato in me un seme speciale per tutto ciò che riguarda il mondo del pianoforte e dei pianisti . Sono stato davvero fortunato ad averne trovati e voluti con me, nei miei gruppi, tanti di così grandi: Steve Kuhn, Jacki Byard, Don Friedman, Herbie Hancock, Keith Jarrett, Michel Petrucciani, Bobo Stenson, Geri Allen, Brad Mehldau, Jason Moran e … Gerald Clayton. In loro cerco soprattutto l’intelligenza, l’emozione, il lirismo, lo swing, la modernità e l’individualità. Sono pronti ad assumersi dei rischi? La risposta a quest’ultima domanda è fondamentale ma tanti altri elementi sono necessari per arrivare a grandi traguardi nella musica.

 

Cosa trovi, invece, di speciale nei componenti del tuo nuovo quartetto?

Sto per arrivare con un gruppo di giovani che sono degli autentici geni sui loro rispettivi strumenti. Gerald Clayton è quello che ha suonato come me più a lungo. È sfacciato e ricco d’inventiva, ma dentro le sue corde c’è un vero e intenso poeta. Joe Sanders si è unito a me lo scorso novembre per eseguire una nuova suite che mi è stata commissionata dal Jazztopad Festival di Wroclaw, in Polonia. Sono rimasto molto impressionato dalla sua musicalità e da ciò che ha saputo portare dentro la mia musica. Justin Brown è invece l’ultimo arrivato. La sua è una formazione radicata soprattutto nel gospel e immette un grande feeling nel suo modo di suonare.

 

In “Rabo De Nuve” e “Mirror”, gli ultimi album ECM del nuovo quartetto, è più prevalente l’aspetto compositivo o quello improvvisativo?

È sempre una combinazione di entrambi. “Rabo” è dal vivo mentre “Mirror” è stato registrato e concepito in studio. Ma in entrambi c’è un arco di emozione ed espressione che è molto importante. Noi ci sentiamo come degli esploratori a cui piace correre anche dei rischi. Mi piace volare alto. Ma quando voli in alto non c’è alcuna rete di salvataggio sotto di te, perciò non puoi guardare in basso.

 

Cosa mi puoi dire dell’esperienza e della felice collaborazione con la cantante greca Maria Farantouri? Come vi siete conosciuti e cosa ritieni che vi sia di speciale e magico nell’album dal vivo “Athens Concert”?

Dietro ogni angolo ci sono scoperte che devono essere fatte. La questione è che tu non puoi programmare una scoperta, ma con il tempo sono arrivato a imparare e a capire che quello che tu stai cercando nello stesso momento sta cercando te. Quando Maria Farantouri fu invitata ad esibirsi nella città dove vivo, a Santa Barbara, e mi capitò di incontrarla a casa del mio amico Jimmy Argyropoulos, avvertii subito qualcosa di speciale in lei. Di ciò ebbi conferma la notte successiva quando si esibì all’università. Fui completamente travolto dalla profondità, dalla bellezza e dall’altissima qualità dell’arte che transitavano attraverso la sua voce. Quella fu una scoperta ed anche una di quelle più grandi e inaspettate. Più in là nel tempo, quando mi trovai a dover tenere un concerto ad Atene, la invitai sul palco. Siamo diventati grandi amici e abbiamo scambiato e condiviso molte idee musicali sulle nostre rispettive culture. Poi tutto ciò ha avuto un culmine nel concerto di Atene del 2010. Fu una serata memorabile. Una splendida luna piena sovrastava l’Acropoli e l’antico teatro che era stato costruito nel 160 avanti Cristo. Qualcosa di veramente magico. Di recente abbiamo ripetuto e ampliato quel programma in un concerto avvenuto all’Heridion di Atene lo scorso 20 giugno. È stato bellissimo.

 

Che significato e importanza assumono per te, ancora oggi, la spiritualità e la sua energia?

Siamo tutti spiriti di un viaggio nell’esistenza umana. La musica è parte del mio percorso spirituale e il mio compito è anche fare musica per godere della sua forza.

 

Quale ricordo hai del tuo amico e partner di lunga data Billy Higgins? Cosa ti piacerebbe sottolineare o raccontare circa il suo modo di intendere e concepire la musica?

Maestro Higgins vive con me nel mio cuore. È stato il mio più grande amico e collaboratore, dentro e fuori la musica. Il suo approccio era gioioso ed esuberante. Con chiunque gli capitasse di suonare lui cuciva un vestito su misura, perfettamente adatto alla situazione. Quando si trovò sul letto, in punto di morte, mi disse: “Dobbiamo continuare a lavorare su questa musica” io replicai ” Intendi alzarti dal letto e unirti a me?” e lui rispose: “Non ho detto vorrei essere lì, ho detto che sarò sempre con te”. Avverto la sua presenza ogni volta che suono.

 

Che tipo di prospettive musicali hai cercato di esplorare ed esporre con l’ultimo album “Hagar’s Song” inciso con Jason Moran? Perché hai scelto il duo come formula e sei tornato sulle tracce di autori quali Brian Wilson, Bob Dylan, Duke Ellington e George Gershwin?

Jason e io abbiamo un profondo rapporto. Insieme riusciamo a fare sempre grandi cose. Ho voluto esplorare alcuni aspetti della tradizione da cui proveniamo, quella di Strayhorn ed Ellington, e anche cantare ai miei antenati. Il mio caro amico Levon Helm morì pochi giorni prima della registrazione dell’album, perciò I Shall Be Released di Dylan è stata dedicata a lui. Per quanto riguarda Brian Wilson, con cui ho lavorato, penso sia uno dei più grandi compositori americani. Ho sempre amato sentire Carl Wilson che cantava God Only Knows, e pertanto abbiamo voluto incidere la nostra versione di quel magnifico brano.

 

Dopo così tante impressionanti avventure nell’arte e nella musica c’è ancora qualcosa di incompiuto che sogni di poter fare un giorno?

Più vivi più fai esperienze nella vita. Penso di avere ancora qualcosa da dare adesso.