Dieci e lode ad un lavoro che abbraccia il passato e il presente, che arrangia i suoni lasciandomi addosso quella sensazione di maturità, di chi sa che c’è ben poco da inventare ma che forse la chiave di ogni cosa è la personalità. Parola magica questa che oggi sembra sparire anche dentro generi popolari (in senso alto del termine) com’è sempre stato il rap, ad esempio. E qui diamo il benvenuto ad ABAN, MC leccese che torna con un disco davvero impressionante dal titolo “Rap Inferno” pubblicato dalla label Sud Est Records da lui fondata nel 2006. Dal bit metropolitano a dissonanze quasi “jazz” (e mi si consentano le virgolette e le mie personalissime digressioni), dalle distorsioni rock alle più classiche metriche del genere. E in questo disco, come spesso accade nella carriera di ABAN, il rap si colora di vincenti soluzioni melodiche che teletrasportano il suono ma soprattutto la lirica nella vita quotidiana di ognuno di noi, anche di chi vive fuori da queste abitudini. Ma più di tutto è il messaggio di questo disco: socialmente utile sotto tutti i punti di vista, veleno e verità a nudo, sul malaffare discografico e su quello che si pavoneggia nelle finte morali del mercato, dai lupi solitari ai clan passando per la solitudine che si conquista uscendo vittoriosi dai percorsi battezzati dalle regole del grande sistema. Suona potente e suona dolce nonostante le viscosità ai bordi. Persino la storica voce di ABAN suona accomodante nella sua rabbia rocciosa.

 

 

Un disco di Rap che giunge anche a magazine come il nostro. Ormai ho come l’impressione che questi generi siano vittime della loro stessa etichetta e si propaghino solo dentro il loro “clan”. Cosa ne pensi? Che impressioni hai?

Come tutti i generi underground la musica nasce come fine non come mezzo, a differenza del mainstream. Non c’è nessuna vittima, tranne che gli ascoltatori di massa che, come ieri con la dance, fanno oggi con la trap italiana senza nessuna cognizione reale per rendersi conto che è solo un bluff. Chi muove le leve di questo mercato sono gli stessi che spingevano le boyband dei primi anni duemila/fine anni novanta con la differenza che nonostante la musica da cesso, almeno ballavano bene. La nicchia, come tu la chiami, non è altro che la culla della musica più sana. Culla di ogni artista che è riuscito ad affermarsi nel mainstream senza cadere nelle trappole commerciali della maggior parte delle major dei oggi. “La vittima è la musica, l’accusa è l’omicidio. Carcere a vita.” Cit. Kaos One

Cos’è per te il “clan”? Parola assai depauperata e violentata per le sante mode sociali… spesso l’associamo ai gruppi di criminalità… e invece?

Il termine “clan” significa letteralmente “famiglia”. “Gruppo di famiglie tradizionalmente legate da una stessa discendenza (paterna o materna) e dal culto della stirpe”. Come vedi il vocabolario è più esauriente di qualunque risposta cercavi da me.

Parlaci della grafica di questo disco che somiglia molto al suono e poco al genere devo dire…

Guarda penso sia una questione prettamente di gusto personale nell’ambito della discografia. Mi viene in mente qualche disco di Sean Price o di Buckshot o di Czar Face per depauperare la tua domanda.

E ora invece facciamo un focus sul suono stesso. Dalle ossature classiche del Rap sconfini dentro l’elettronica e in brani come Anfibi di cera prendi anche altre derive “acustiche” se non erro… come ci hai lavorato e come hai deciso le soluzioni di arrangiamento?

La maggior parte dei beats è di Kiquè Velasquez, produttore che da sempre segue il lavoro della sud Est Tecords, in particolare quello dei miei dischi e a cura di Dl Clas K al quale sono stati affidati due pezzi. Il suono rispecchia il contesto narrativo senza stare a badare a dogmi ormai troppo lontani, ma allo stesso tempo rispettando le linee guida che lo mantengono inscindibilmente radicato al rap. Di solito Kiquè crea le basi e quelle che mi trasmettono più vibes vengono scelte per diventare la metà di ogni brano. Sul disco ci ho lavorato come sempre, seguendo l’istinto che da sempre mi guida sulle strumentali. Non scrivo quasi mai per scelta, ma quasi sempre ne sento la necessità.

Esiste secondo te “il brano” di questo disco? Assai lungo di ascolti e di significati…

Il brano di questo disco penso sia Un Lupo, perché è quello che caratterizza di più la mia vita come la mia carriera artistica.

E uscirà presto in una nuova versione in vinile… cosa ti ha spinto anche verso questa dimensione del disco?

Colleziono vinili dal 1996, ne ho all’incirca un migliaio e da sempre per me è stata una passione irrefrenabile quella di imparare a mixare e a suonare in pubblico. Non ha niente a che vedere con i feticisti degli oggetti d’epoca, né tantomeno con la voglia di lucrare, ma questo è il mio decimo disco ed è la prima volta che stampo in vinile.

Se non erro il tuo nome da tempo è legato alla Sud Est Records. Anche questo è un “clan” vero e proprio. Di cosa si tratta?

Si tratta della prima etichetta rap indipendente che ho fondato anni fa a Lecce, terra musicalmente nota da sempre non certo per il rap. Contro ogni previsione negativa la sua longevità dimostra di aver incarnato una dimensione musicale realmente underground ai tempi, che cercava di emergere gli occhi degli ascoltatori della zona. Grazie alla Bella Italia, disco che ho scritto nel 2008, senza nessuna aspirazione di un posto nel mainstream, fece breccia negli hi-fi di tutta la nazione nonostante l’assenza della spinta di una major. Da allora l’attenzione degli ascoltatori vicini al nostro genere diventò assidua e solida per tutte le produzioni discografiche che poi seguirono. La sud est records è nata dal niente, dalla voce di uno dei tanti ragazzi seduti a rappare sulle panchine delle piazzette periferiche del Salento, trascinando con sé e tutto il suo background totalmente legato a questo territorio. Molti artisti hanno mosso i loro passi nella musica professionalmente con noi, traendo una matrice inscindibile dalla nostra impronta. La maggior parte degli artisti rap della scena italiana dei primi anni 2000 è stata presentata da noi alla nuova scena salentina, questo perché sud est records non è solo un’etichetta che produce musica, ma da sempre divulga la cultura del rap attraverso l’organizzazione di eventi nel periodo in cui il reggae soffocava sulle piste qualunque altro genere musicale. Non siamo ancora all’altezza di avere una visibilità pari alle major dell’industria discografica, ma siamo una realtà solida e certificata da anni di professionalità e passione divulgata sui palchi di tutta Italia. Non ci siamo mai improvvisati rappers o produttori di eventi, in tempi non sospetti abbiamo dato vita a un movimento che ancora oggi è pronto alla sfida musicalmente ed economicamente parlando.