Si intitola “Antro”, distribuito per Metropolitan Groove Merchants, il primo lavoro personale di Massimiliano Di Carlo, trombettista, cantante e polistrumentista, ma io vorrei poter aggiungere anche ricercatore del suono e della sua geografia, dei modi e dei popoli che ne danno forma. Un disco che nasce assieme a Reda Zine – guembri, elettronica, voci – e a Gioele Pagliaccia – batteria, oggetti sonori, Kanjira. E qui tornano centrali nomi quali Ernesto De Martino o il più celebre Alan Lomax, ma torna anche quel doveroso modo di resa e di abbandono che serve per dedicarsi all’ascolto di un lavoro simile, dove l’abitudine alle forme si perde e il suono lascia spazio a disegni densi di spiritualità, di improvvisazione anche… dalle mitologie greche alle rarefatte società pastorali degli Appennini. La festa, gli anatemi e le simbologie apotropaiche. Tutto questo (e altro ancora) ha un suono…

 

 

Massimiliano Di Carlo AntroHo come l’impressione che il suono non sia il centro di questo disco. Piuttosto la ritualità, l’uomo, la sua credenza mistica… sbaglio?

Direi entrambi, in quanto il suono, da sempre è stato associato alla ritualità, al contatto con L’invisibile, al fenomeno catartico, solo recentemente è diventato un prodotto commerciale al pari di un’automobile o una qualsiasi altra merce di consumo. Questo disco, quindi, vuole richiamare il rapporto stretto, inscindibile tra suono e rito collettivo, la stessa radice da cui proviene il jazz.

Che rapporto ha questo suono con la spiritualità e il credo religioso?

Direi totalmente assente con qualsiasi credo religioso, totalmente connesso con un approccio spirituale al suono, allo stesso modo di come lo ha inteso o intende ancora oggi John Cage, John Coltrane, Wasifuddin Dagar (stile Dhrupad dell’India del Nord), Arvo Part o un poeta pastore abruzzese che canta in onore della Festa in cui ì sincretismi tra il mondo spirituale precristiano e la devozione contemporanea rimandano più ad una festa Dionisiaca o Shivaita piuttosto che ad una celebrazione religiosa ufficiale di qualsiasi tipo.

La produzione? Parliamo di un live in studio o avete elaborato sovraincisioni studiate in anticipo?

Abbiamo stabilito in anticipo una sorta di “scatole improvvisative” decidendo i toni principali della scala modale, i timbri, entro le quali poterci muovere attraverso un totale interplay. In questo disco l’ascolto e la creazione estemporanea sono alla base del codice. Allo stesso tempo abbiamo rispettato fedelmente l’impianto modale e microtonale di ogni modo tradizionale da cui siamo partiti, esattamente come un musicista indiano si muoverebbe all’ interno di un raga, l’intonazione è dunque un parametro fondamentale di questa estetica, nessun microtono è lasciato al caso.

E avete anche scelto un parco microfoni o tecniche che potessero richiamare tempi e modi di certe culture?

Abbiamo scelto una microfonazione che lasciasse aria e respiro al suono, portandoci a suonare come se fossimo durante una festa in cui il pubblico balla o comunque è parte attiva nel fenomeno sonoro.

 

 

Hai in qualche modo pensato di intrecciare tutto questo con la poesia e le immagini dei luoghi di confine?

Assolutamente sì, la poesia cantata che si può ascoltare in questo disco si basa su una prassi che nel medioevo abbiamo assorbito dai canti melismatici delle dominazioni arabe e ancor prima dal gregoriano che a sua volta proveniva da una comunicazione fittissima che l’Impero Romano d’Occidente intesseva con Costantinopoli e l’Impero Romano d’Oriente. L’impronta jazzistica e urbana che tutti noi tre musicisti abbiamo vissuto nelle nostre carriere musicali ovviamente non viene rifiutata, anzi contribuisce a tessere questa maglia di linguaggi e flussi spontanei, portandoci allo sviluppo di un nuovo linguaggio.

E se ti chiedessi che origine ha questo disco? Ha una sua bandiera personale?

Questo disco nasce dall’esigenza di esprimere un rapporto con il suono che dopo tanti anni di professione musicale di stampo ufficiale/occidentale ho riscoperto tornando dagli anziani dei miei luoghi d’origine e a frequentare le feste in cui il suono svolge ancora un ruolo rituale. Così come il jazz si è sviluppato lentamente a partire dai canti di lavoro e le invocazioni della cultura africana, ho voluto mettere in risalto i canti rituali, di lavoro, invocativi ecc della nostra cultura dell’Appennino centro meridionale, che per anni sono stati completamente messi da parte in virtù dello sviluppo di una musica cosiddetta italiana affiliata alla cultura anglofona. Ascoltando gli anziani italiani cantare ancora oggi invece è possibile scorgere la presenza di una cultura euroasiatica, in cui il ponte che unisce terre lontane volge verso est (Le Indie, I Balcani) e verso sud (il nord Africa, la Grecia e la Turchia).