Privo di sogni potremmo tradurlo questo titolo. Ma forse, in realtà, nelle allegorie di queste parole e di questi suoni, quel che non è reale è proprio ciò che viviamo attorno ogni giorno. Una sospensione continua che ricerca il vero dentro l’essenza, dentro la spiritualità, dentro la scelta di parole… e lei, Laura Vittoria, cantautrice e poetessa, sceglie tutto con dovizia di particolari e attenzione. Chiede man forte ad un grande del suono come Marco Fasolo e pubblica un primo lavoro che troviamo anche in vinile: “Kein Traum” ha nel retrò quel modo potente di tornare attuale, come cocci rotti di reperti antichi che però parlano di futuro. E se il folk è la radice spesso affiora, il resto è totale libertà compositiva che segna ancora una volta un punto a favore della nuova musica italiana. Finalmente, tanto spesso, in rosa…

 

VITTORIA CoverA lavoro con Marco Fasolo. Come ci sei arrivata, ma soprattutto che ragioni porta con sé questa scelta?

Apprezzo molto Marco, come persona e come artista. Contro ogni ragione, ha dedicato la sua vita a rincorrere e a costruire la sua visione. Da ragazzo ha lasciato il liceo per andare a lavorare a Berlino, con l’obiettivo di racimolare dei soldi e comprare la strumentazione con cui avrebbe poi registrato il suo primo disco. Ha sempre avuto le idee chiare rispetto a ciò che voleva essere, e non si è mai piegato a becere logiche di mercato. Ammiro molto il suo coraggio. Inoltre, anche come produttore non è malaccio, dai.

Per la produzione avete scelto anche fisicamente degli strumenti particolari? Scelte di suono e di ricostruzione del suono anche?

No, non ci sono strumenti particolari o strani. Abbiamo usato perlopiù gli strumenti in possesso di Marco. I miei preferiti sono stati l’harmonium e gli strings. Ma i suoni che senti all’interno del disco sono tutti il risultato di molteplici layerizzazioni tra strumenti veri e strumenti virtuali. Secondo me, è anche questo che conferisce al disco un’identità sonora non particolarmente riconducibile a strumenti precisi. Ed era quello che volevamo sia io che Marco.

E il lavoro assieme che cosa ha dato al disco che prima non riusciva ad avere?

Sonorità più interessanti, caratteristiche, precise.

Ascoltando queste canzoni salta subito all’orecchio quanto l’identità sia mutevole: esiste un punto preciso in cui ti riconosci o ti riconosci proprio nel cambiamento?

Nel campo artistico, mi riconosco nel continuo cambiamento di forme, luoghi, situazioni, sensazioni. Nella mia vita privata e personale, invece, sono una persona abbastanza routinaria che ha bisogno di coordinate fisse attraverso cui muoversi.

Per te la musica deve avere una connotazione apolide? Oppure pensi/ti senti un’artista italiana?

Questa è una domanda difficile e interessante. In effetti, mi chiedo spesso perché io abbia deciso di cantare in italiano questo disco. Mi rispondo che, sicuramente, una delle ragioni è proprio perché scrivo poesie in italiano. Un’altra ragione, forse ancora più importante, è perché l’italiano è la lingua in cui, sopra ogni cosa, sogno. Inoltre, lasciando da parte i testi, devo ammettere che se penso a questo disco, lo penso come a un “disco italiano”. Ciononostante, io, come musicista, non mi sento solo italiana. È proprio una bella parola, quella che hai usato tu: apolide, senza polis, senza città. Mi sento così.