Fresco di pubblicazione il nuovo video tratto da questo esordio che cavalca una scelta stilistica che ha forti radici in un passato anni ’90 di new wave e suoni digitali con cui rivestire la forma del pop. Parliamo di Fabio Smitti, parliamo di un disco come “Instabile” che fotografa l’incertezza come l’indeterminazione dell’esistenza di ogni giorno, di chiunque di noi… anche ricorrendo a pattern sonori che sembrano fluttuare senza grandi scossoni. Come dentro l’ultimo video “Sunny day” appunto, brano che fa di conto del tempo che perdiamo dentro – a modo mio di leggere il brano – quelli che risultano essere dei nulla di fatto, ma solo caotici intrecci di pensiero e di emotività. Una produzione compatta, digitale, figlia di questo futuro ma devota a tanto passato.
Il suono ci richiama alla memoria molta della new wave anni ’80 che Garbo e compagni avevano sdoganato. Sono radici a te care quelle?
Sicuramente la new wave ha influenzato i miei gusti musicali, ero sempre affascinato dalle sonorità atipiche che sentivo. Ma mi riferisco più che altro alla scena internazionale: Joy Division, Talking Heads e i Police. E poi Elvis Costello e Leonard Cohen. Quando penso a un artista italiano è sempre Battiato.
In che modo il futuro ha contaminato un lavoro che sento ampiamente legato comunque al passato?
Il passato è una visione che il presente leviga, accomoda e distorce. Il futuro è una visione che il presente cerca di creare. Il nostro tempo, come persone, è uno spago con un inizio e una fine: in qualunque punto decidi di muoverlo la tua azione si ripercuote su tutto il resto. Questa regola vale anche per la mia musica, il passato si presenta e sussurra ricordi che costruiscono e condizionano più il futuro che il presente.
I video cercano direzioni concettuali molto poco immediate, molto poco pop… secondo te è necessario che ognuno si componga il suo film personale a dispetto del tuo messaggio? O è un modo per dare altre angolazioni da cui guardare il quadro?
Credo che le arti in genere siano un’offerta a ognuno di noi. Un qualcosa di cui possiamo fruire in modo autonomo: c’è chi sceglie di approfondire e scoprire il messaggio dell’autore, chi cerca di trovare una lettura confacente alla propria esistenza. Le arti ci offrono alternative, risposte e domande. Quello che faccio, sia a livello musicale che video mi permette di esternarmi, ma anche di affiancarmi a chiunque ascolterà, guarderà. Penso alla birra con l’amico che ti racconta il fallimento del suo matrimonio, e tu gli parli dell’incontro casuale con la tua prima fidanzata… e poi la radio passa Sunny Day, e per entrambi c’è qualcosa da ascoltare, rielaborare ed elaborare. Presente, passato e futuro.
Quanto l’instabilità, intesa come condizione esistenziale, diventa una chiave di lettura della tua musica e del tuo modo di stare al mondo?
Siamo tutti in cerca di stabilità, ma l’equilibrio perfetto esiste solo nell’immobilità. Instabile è una presa di coscienza sul passato e un monito per il futuro, un motore per il presente. L’età matura ci permette di capire e accettare gli scossoni, gli imprevisti e i rimpianti che affronteremo durante il viaggio verso l’equilibrio. Accogliere l’instabilità, senza temerla o contrastarla, ci farà planare verso il futuro stabile.
Parlando di produzione: quanto suono suonato si innesta a quello delle macchine? E che obiettivo di suono avevi? Anche qui sento molte soluzioni “classiche”… o sbaglio?
Sono un po’ scettico nel distinguere macchine e suoni. Credo che anche la macchina abbia il suo peso autorale, la sua anima. Piuttosto sposterei questo distinguo tra artificiale e non-artificiale. Di artificiale non c’è nulla nel mio suono. Ci sono tastiere, synth, chitarra e basso. C’è la macchina, per mescolare, per le ritmiche percussive. Quindi si, molte soluzioni classiche. Per il suono c’è stata molta ricerca, la maggior parte dei brani sono partiti da idee emozionali che volevo ricreare. Volevo un suono empatico, che mi rimandasse a quelle emozioni. Da qui la miscela tra analogico e digitale, tastiera e chitarra a limarsi una sull’altra.
Dal vivo come suona questo disco? Che cosa accade in scena?
Per ora non c’è una progettualità in questo senso. Per quest’album, ma anche tutt’ora, sto lavorando con un amico in studio, sono più propenso alla ricerca e alla creazione che all’esposizione del lavoro in live. Non che lo escluda a priori, ma non è tra i miei obiettivi a breve termine. Mi piace pensare al mio ascoltatore mentre è seduto con le cuffie, non me lo vedo sotto un palco. Questo è quello che credo manchi nei tempi moderni: l’esclusività del momento. Ascoltare per ascoltare. La musica sembra invece relegata a un sottofondo sempre più latente, colonna sonora mentre scrolliamo lo schermo del cellulare, oppure base per accompagnare sterili movenze ed esteriorità.






