KARBONICA | Quando la musica inedita sconfigge le cover

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Mi hanno invitato all’ascolto di un genere musicale che tendenzialmente non mi fa impazzire. Quello dei Karbonica in fondo non è che l’ennesima prova di stile in cui il rock americano incontra il pop italiano e si genera una miscela che da una parte “scimmiotta” il colosso a stelle e strisce e dall’altra emancipa il “sole cuore amore” leggero italiano in vedute decisamente internazionali. Eppure quello dei Karbonica, oltre che al fenomeno delle cover band (battute e stracciate nel ricoperto di pubblico sul proprio territorio), ha sconfitto anche parte dei miei pregiudizi. Parliamo di un esordio autoprodotto che però ha carattere da vendere e poi una “strana” maturità di produzione che vede l’apporto di arrangiamenti molto più “elaborati” di una semplice band che suona rock da una vita. Il fenomeno delle garage band è vero che è storia antica, anche e soprattutto grazie ai facili mezzi a disposizione di tutti, ma è anche vero che c’è modo e modo di sparare le cartucce quando si scende in battaglia. E oggi tutti abbiamo fucili potenti e mezzi altamente sofisticati per fare scena. I Karbonica invece restano veri e sinceri con una musica che mi restituisce l’esatta immagine di chi sta suonando. Mancano ancora le trovate da hit, però il mestiere c’è e lo portano a segno con molto gusto, maturo, probabilmente anche frutto di chi la pelle la sta consumando strada facendo prima che dietro i social…

 

 

 

Un giorno gli autori parlavano di amore e di melodrammi del cuore. Oggi la società e la crisi la fanno da padrone. Domani secondo voi di che si parlerà? I Karbonica per esempio…

Ancora si parla di amore e melodrammi del cuore, basta accendere la radio, forse è il vero standard pop in Italia. E’ tuttavia vero che gli eventi storici hanno condotto alcuni autori, di certo quelli per loro natura più inclini a farlo, ad accendere un riflettore sui fatti della loro epoca. Domani chissà, l’arte rispecchia la società, mi auguro si parlerà di cose migliori. Mi permetto di denunciare un fatto abbastanza serio, in questo momento storico, pare stia diventando di moda parlare dei fatti che stanno corrodendo la nostra società, diciamo un business che nella musica sta trovando terreno fertile… ma in fondo poi nei testi scritti dai big che sentiamo sulle più blasonate radio nazionali quanta sostanza c’è? Sanno davvero cosa vuol dire perdere il lavoro? Hanno mai provato a lavorare 10 ore al giorno, per una paga di 30 euro? Noi qualcosina in merito la sappiamo e tutta la nostra rabbia l’abbiamo messa in questo disco.

 

Trovo discordanza tra il piglio di voce molto pop (quasi ricorda Nek) e un sound molto roots americano, dal rock verace che oggi hanno aperto anche al mainstream. Una precisa scelta o soltanto punti di vista discutibili?

I Karbonica sono così. E’ chiaro che oggi le nostre orecchie sono abituate a dei modelli ben precisi, non so pensiamo ai Guns’n Roses o agli AC/DC. Tuttavia possono esistere eccezioni, mi vien da pensare ad esempio a band come Toto o Whitesnake, in cui la voce palesemente pop, trova il suo posto dentro a brani che hanno fatto la storia del rock internazionale. Però caspita arrivare a Nek….ce ne vuole, vi invitiamo ad un nostro live poi ne riparliamo!

 

Parliamo di produzione: al mio ascolto mi è sembrato di scorgere diverse finiture e mood sonori. Come a dire che brani come Quel bisogno che suonano diversamente (e meglio al mio giudizio) di brani come “Quei colori”. Anche qui: ci sono motivi precisi o sono semplici punti di vista?

Ottima osservazione, intanto partiamo dal fatto che in Quel bisogno che e La tua rivoluzione una delle due chitarre è stata suonata da Giuseppe Pecci e non Orazio Basile nostro chitarrista, quindi il timbro è già di suo, in parte, diverso. Inoltre sono state fatte delle scelte in studio, ben chiare e su ogni singolo brano con una loro logica. Ad esempio Quei colori è stata registrata a 432Hz, nessuno ancora lo aveva notato, quindi questo brano su tutti suona diversamente. Su alcuni brani si è voluto inserire qualche loop ritmico e un po’ di elettronica come in Pezzo D’Africa e La tua rivoluzione. Potremmo continuare a parlare per ore. La sostanza è una, si tratta di musica indipendente e autoprodotta, quindi è possibile che un disco che si chiama “Quei colori” non possa avere 10 colori diversi?! il nostro obiettivo era questo, forse è la prima volta in assoluto, che qualcuno si accorga delle peculiarità di questo lavoro.

Caratteristico ed importante sapere come voi venite da una controcultura di cover. Ce lo raccontate meglio?

Suonare cover può essere divertente, ma non si sta facendo affatto musica. Scrivere, comporre, entrare in studio, ragionare su come far uscire un suono anziché un altro è qualcosa di fantastico, credo una delle emozioni più forti mai provate nella nostra esistenza. Autofinanziare un lavoro suonando per i club è però oggi è impossibile, l’appiattimento della cultura verso il basso, ha condotto la società ad essere pigra e poco curiosa, pensate se Jimi Hendrix fosse nato negli anni ‘80, oggi quale club lo avrebbe ospitato a suonare? Questa società cerca intrattenimento, questo è il principale nemico della cultura. I Karbonica suonano dal 2009, hanno suonato pure parecchie cover, ma non hanno mai mollato i loro sogni, lavorando con continuità e tenacia, spesso molti club ci hanno chiuso la porta in faccia perché noi volevamo suonare i nostri brani, il tempo ci ha però in parte dato ragione, oggi abbiamo un pubblico e abbiamo registrato questo disco. Le cover le lasciamo suonare a chi non può permettersi di fare altro e a quei locali in cui non vale neanche la pena andare a suonare.

 

Aspettative e responsabilità di un esordio: che cosa pensate serva e accada ad un disco pop-rock che si affaccia oggi al mondo italiano della musica? I Karbonica hanno un altro mostro da sconfiggere…

Basta mostri, è un disco, siamo orgogliosi di averlo fatto così, noi veniamo da una scuola rock “classica” non siamo scemi e sappiamo bene oggi cosa va di moda. Oggi abbiamo l’indie-alternative italiano “radical chic” dei circuiti underground, per i figli di papà con la puzza sotto al naso, oggi divenuti banali e ripetitivi come mai è riuscito ad essere il classic rock nella sua storia (usano addirittura gli stessi modelli di chitarra e lo stesso vestiario). Il pop delle major, che continua a parlare ad oltranza di amore e di grandi sentimenti, spacciandosi a volte per rock. Il rap (a volte un po’ pop) tornato alla ribalta spesso grazie ai talent show. Forse non c’è spazio per dinosauri cattivi con dei temi chiari come noi. In ogni caso, noi facciamo questo rock e suoniamo per quel pubblico che si aspetta il solo di chitarra, il suono delle valvole incandescenti degli amplificatori, il groove, il riff e la botta che solo sotto al palco si può davvero sentire, ma soprattutto i contenuti perché la musica non può non averli!

 

Nel disco c’è un pezzo importante che vorrei sottolineare: Pezzo d’Africa. Apriamo gli occhi su un tema globale piuttosto che sul giardino di casa nostra…

Pezzo d’Africa parla dell’italiano medio e dei suoi pensieri su questo fenomeno migratorio che ha raggiunto una dimensione incredibile. I Karbonica son una band siciliana, diciamo un po’ del “secondo mondo” (non che il resto dell’Italia sia messa meglio). Nascere in un emisfero anziché in un altro, determina differenti opportunità, è solo una questione di culo! In fondo se è vero che molte cose qui non vanno affatto bene, esistono altre realtà. Oggi spesso la destra populista risolve il problema proponendo di mandare gli immigrati a casa, senza se e senza ma, questo è quello che vuole l’italiano medio, ma se mettessimo questi contestatori, nei panni di chi non per sua scelta è nato in Zimbawe, Nigeria, Sierra Leone, Eritrea ecc. cosa penserebbero? L’Africa, come oggi anche buona parte del medio oriente rappresentano una parte di questo mondo ed è terribile come questo possa essere così diverso e dare a molte persone una vita piena di cose inutili e ad altri solo disperazione e morte. Terribile vedere galleggiare dei corpi sul mare mentre si è tranquilli sulla spiaggia della Playa di Catania, ma è successo davvero!