ETTORE FILIPPI | Dopo gli RSU arriva “Verso Sera”

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Ecco gli ascolti che ci interessano più di tutti. Ecco la dimensione onirica che incontra lo stile e le forme senza avere come obiettivo l’estetica e quel concetto popolare di bello. C’è tanto altro dietro il primo disco personale di Ettore Filippi, pianista anzi tastierista, cantante degli RSU per arrivare poi qui, in queste 7 tracce inedite di un disco come “Verso sera”, prodotto assieme a Roberto Segato. Post-rock, psichedelia, forme di jazz, narrazioni e piccole forme di canto, immagini in suoni che danzano nelle dinamiche a restituire la pace e la guerra, la tensione prima e la risoluzione poi. C’è la confusione di una paura che corre dentro una vegetazione quando suona “La partita”, c’è il mistero e la sospensione di se stessi dentro “La sera del fauno” o il silenzio della contemplazione nella chiusa affidata a “Crepuscolo”. C’è un mondo dentro il nuovo disco di Ettore Filippi.

 

 

Oggi si fanno sempre più presenti dischi di avanguardie. Derive sonore psichedeliche, dipinti astratti e suoni che distruggono la consueta forma canzone. Come mai secondo te?

Sinceramente non sono così aggiornato in merito alle attuali tendenze musicali. Ma c’è da dire che al giorno d’oggi fare un disco non è poi così proibitivo per cui anche gli addetti ai lavori possono trovarsi ad affrontare una moltitudine di singolarità che forse un tempo erano destinate a rimanere diciamo silenti. Poi se fai riferimento al panorama extra-nazionale è evidente che ci troviamo davanti ad un quadro estremamente variegato, caratterizzato da mille spinte stilistiche, tutte estremamente plausibili. Credo anche vi sia un naturale, ciclico, emergere di nuove istanze narrative, sebbene a tratti mi sembra di intuire qua e là una certa nostalgia per gli anni Settanta… Comunque ho trascorso la mia infanzia ascoltando Le Orme, sono cresciuto musicalmente ascoltandomi “17 re” dei Litfiba, ho proseguito con NIN, Young Gods, e da lì è stato facile passare a Luigi Nono e Sciarrino. Come vedi, non proprio degli esponenti ortodossi della forma canzone.

 

Appunto parliamo di forma canzone che tu annienti anche nel modo di concepire le liriche. Perché questo bisogno di dirigersi verso questo tipo di scrittura? Cos’è che non poteva restituirti la forma canzone classica?

Più che un bisogno, questo tendere ad eludere la forma classica della canzone rappresenta una naturale adesione a forme più congeniali al proprio modo di esprimersi musicalmente. Vedi, a mio modo di vedere, la forma musicale è molto spesso una diretta emanazione della propria vocazione espressiva. Quasi una forma mentale, una gestalt, che si riflette nella strutturazione dei propri pezzi. Ad esempio io amo la forma ad arco, cara ad esempio a Bela Bartok. Ma non dimentichiamo che anche gli stessi elementi musicali messi in campo suggeriscono strategie formali che li possano svolgere coerentemente nel tempo… e come hai capito, nel mio personale modo di comporre, la musica precede le parole, sempre.

I brani hanno ampi momenti di dinamica. Un ingrediente estetico ma, secondo me, anche letterario. Una parte integrante della scrittura o sbaglio?

Dici bene. L’elemento dinamica, come il tempo, sono nel mio personale modo di vedere e pensare la musica, parametri più importanti dello stesso parametro altezza o armonia, che dir si voglia. Probabilmente ciò deriva dalla mia esperienza didattica volta allo studio della musica contemporanea, e nello sviluppo della narrazione musicale le tensioni, prima che armonicamente, sono gestite da rapporti come pieno-vuoto, veloce-lento, forte-piano.

 

Ho come l’impressione che gli ultimi due brani, Sere di Maggio e Crepuscolo introducano un momento diverso del disco, più nostalgico, più “quotidiano”. Sbaglio?

Tutti i pezzi, tranne Crepuscolo si sviluppano attraverso azioni di tensione e distensione. I brani in questione, con “La sera del fauno”, soddisfano con la loro funzione diciamo distensiva questa dialettica, però su un livello più ampio, quello appunto dell’intero album. Tuttavia Crepuscolo si pone all’interno di questa relazione in maniera più autonoma: non vi sono parole, né canto. Si tratta quasi di un riverberare del disco, in lontananza. Un momento raccolto, di commiato. Siamo giunti alla fine della sera e qui Crepuscolo rappresenta il luogo dove l’eco delle emozioni possono al termine di questo viaggio sonoro sedimentare e forse germogliare, piano piano.

 

Mi colpisce nella tua biografia il momento in cui abbandoni gli RSU proprio quando arrivava la firma di una major discografica. Ce lo racconti? 

Mah, è passato molto tempo… non ricordo neanche più tanto bene. Certo la fuoriuscita di Karin dal gruppo, col senno di poi, non aveva tanto spostato gli equilibri, quanto sicuramente aperto a soluzioni timbriche e narrative che forse non rientravano più nel mio orizzonte… o così credo.

 

La co-produzione con Roberto Segato. Cosa ha significato per questo tuo primo lavoro personale?

Roberto è un grande musicista. Ci conosciamo fin da giovani, abbiamo frequentato entrambi lo stesso Conservatorio. Nutro per lui profonda stima e ci lega una duratura amicizia. Avevo già collaborato con lui per alcuni miei pezzi pochi anni fa, per cui quando si stava arenando la collaborazione con l’etichetta discografica che doveva produrre il disco, poi definitivamente caduta, mi è venuto naturale chiedere il suo aiuto e da subito il suo contributo ha permeato il lavoro su vari livelli. Dai semplici consigli, alla ricerca di musicisti e la registrazione del loro lavoro presso il suo studio – l’idea di introdurre il flauto nell’arrangiamento dei pezzi, che trovo estremamente caratterizzante tutto il lavoro, è solo sua – fino all’elaborazione di alcuni arrangiamenti alla tastiera.

Vorrei anche che collaborasse per eventuali esecuzioni live, ma mi sa che dovrò lottare non poco….